L’Occidente in scena a Gorizia: il crollo delle illusioni del Novecento
Debutta il 18 settembre per GO2025! "L'alba dopo la fine della Storia" dello scrittore Paolo di Paolo con la regia di Giacomo Pedini. L'autore: "Dalla Guerra dei Balcani un monito p

È una trilogia che attraversa il Novecento da un confine: quello tra est e ovest, tra il passato che non muore e il presente che fatica a dimenticare. Inabili alla morte / Nezmožni umreti, ideata da Giacomo Pedini per Mittelfest di cui è direttore artistico, prende forma con tre spettacoli teatrali, sei radiodrammi (in italiano e sloveno), e la pubblicazione dei testi in entrambe le lingue. Dopo La Cripta dei Cappuccini di Joseph Roth e Alla ricerca della lingua perduta di Goran Vojnoviæ, arriva L’alba dopo la fine della Storia (Zora po koncu zgodovine) di Paolo Di Paolo, in scena dal 16 al 18 settembre 2025 tra Gorizia e Nova Gorica, nell’ambito di Go2025! per la capitale della cultura europea.
La nuova parte – originale, indipendente e multilingue – debutta in prima assoluta il 18 settembre al Teatro Verdi di Gorizia, diretta da Pedini, con gran parte del cast di La Cripta dei Cappuccini. «Volevamo uno spettacolo che fosse la continuazione ideale della storia che avevamo già messo in scena», spiega ad Avvenire Di Paolo, «una linea che unisce gli eventi iniziati con Roth e quelli degli anni Novanta: la caduta dei muri, l’illusione della pace, ma anche le manipolazioni, le guerre che riaffiorano.»
Paolo Di Paolo, 42 anni, scrittore e autore teatrale, racconta che il progetto è nato da una sorta di responsabilità generazionale. «Io e Pedini siamo nati negli anni Ottanta», dice, «non abbiamo vissuto in prima persona la Guerra Fredda, ma abbiamo ereditato ricordi acquisiti: l’immagine del Natale del ’91, quando la bandiera rossa fu ammainata sul Cremlino, è qualcosa che ricordo appena ma che mi porto dentro».
Per lui, questo sguardo giovane non significa ignorare la storia ma ripensarla. «Ci siamo detti: serve lo sguardo dello scrittore della nostra generazione, piantato nella fine del Novecento ma non pienamente consapevole degli eventi. Bisognava interrogarsi su cosa significhi la caduta del muro, cosa abbia proposto e cosa abbia lasciato, anche sul secolo seguente». Nel delineare L’alba dopo la fine della Storia, Di Paolo mescola teatro e live cinema, verità palesi e fake clamorosi. Si muove tra dati storici e drammi personali, intessendo la storia pubblica con la storia privata.
«Ricordo benissimo gli anni ’93-’95 della Guerra dei Balcani», racconta. «Gente sfollata, come oggi a Gaza; il Kosovo; la nostra famiglia che ospita un bambino croato per un’estate: Dalibor. Aveva 11 anni, io 12. Ricordo ancora la prima sera, quando si fece la doccia coi vestiti addosso. Era il trauma che si manifestava. Quando vedeva in tv Miloševic, faceva il gesto del mitra sparando verso lo schermo. Chi cresce nella guerra, come i bambini a Gaza o in Ucraina oggi, porta quel trauma dentro per sempre. È un tema che non possiamo ignorare».
E aggiunge: «Mi sono chiesto: io sono romano, cosa c'entro con quell’orizzonte? Questa distanza l’ho tematizzata. Ho seguito un corso di serbocroato per parlare con Dalibor; ora ho dimenticato tutto. Ma è rimasta la domanda: quando raccontiamo, siamo autentici o stiamo facendo proprietà culturale?». Lo spettacolo si svolge su tre piani, fra Austria, Italia e Slovenia, con al centro c’è una figura femminile emblematica. «C’è Monika, una regista che prova a mettere in scena a Trieste uno spettacolo sugli stupri etnici in ex Jugoslavia. Ma si chiede: come raccontare questo dolore senza essere ricattatori o inautentici? C’è uno scontro: una delle donne che testimonia le dice: “Hai voluto che ti raccontassi ciò che volevi sentirti dire”. Il pietismo, l’ideologizzazione del dolore: è un tema che mi ossessiona».
Che ruolo ha il teatro in tutto questo, chiediamo. «Il teatro può avere una funzione pedagogica. Può illuminare i numeri, i traumi. Pensiamo agli oltre 50.000 stupri etnici: numeri che fanno fatica a diventare esperienza. Ma il teatro può renderli visibili, può restituire voce e volto.»
Ambientata negli anni Novanta fino al Duemila, la parte finale naviga tra entusiasmo e disillusione: la fine della storia — per usare la categoria di Francis Fukuyama — la caduta del comunismo, la speranza in una pace e prosperità eterna, poi le crepe causate dai conflitti balcanici, dalla deriva del sogno liberale. «Tutto ciò che sembrava un modello perfetto — il privilegio occidentale, il benessere, la promessa della democrazia — ha mostrato crepe importanti», dice Di Paolo. «L’Occidente ha tradito la sua promessa: al di là della nostalgia che vende, c’è disuguaglianza, ci sono le guerre che entrano nei nostri televisori, i profughi come ieri e oggi. Il benessere non è mai stato equamente distribuito.»
Lo spettacolo, ripercorrendo il passato, lancia un messaggio per l’oggi. «L’Occidente si è convinto di essere il centro del mondo, di dover insegnare agli altri la democrazia e la tolleranza. In realtà, abbiamo perso la bussola. Abbiamo creato profonde disuguaglianze. Sento questo disorientamento. Serve una nuova mappa, una nuova narrazione». Se davvero la “fine della storia” fosse avvenuta — secondo alcuni pensatori — con la fine della Guerra Fredda, Di Paolo sostiene che quella fine è durata poco. È iniziata una nuova storia, meno lucida, più frammentata, dove le date ufficiali non bastano. «Dopo il crollo del muro, molti si sentirono al sicuro. Pensavamo la pace durasse decenni, ma la guerra in Ucraina ci ricorda che non è così. Anche la guerra balcanica non è stata solo un capitolo lontano: è nel presente, nei riverberi delle nostre paure, nei confini che tornano. La nuova storia può ricominciare altrove».
Sul piano formale, lo spettacolo promette di essere potente: «Pedini usa moltissimo led e proiezioni, genera un meccanismo ingigantito da live cinema», dice Di Paolo. Il passato si manifesta con immagini, suoni, colori che suggeriscono la nostalgia, l’illusione di un’epoca “più bella” che forse non è mai esistita del tutto. Ma per lui lo spettacolo non è solo visivo: «Il teatro può essere civile, pedagogico, ma non deve mai essere moralista. Deve porre domande, non fornire risposte prefabbricate. Il pubblico, alla fine, deve uscire col senso che ha visto qualcosa che gli appartiene, anche se non l’ha vissuto».
L’alba dopo la fine della Storia non è solo un titolo: è un richiamo a ridestarsi, a interrogarsi, a non lasciarsi ingannare dalla promessa del domani. Promesse che riguardano anche la prossima sfida teatrale di Di Paolo che, insieme a Lino Guanciale e Claudio Longhi, sta lavorando sulla drammaturgia di Miracolo a Milano, che debutterà al Piccolo Teatro il prossimo marzo. «Uno spettacolo che racconta la Milano dell’epoca e, al tempo stesso, la Milano come sogno autoproclamato: il cosiddetto “Modello Milano” - spiega .o scrittore -. Oggi, però, le grandi città non sono più vivibili dal punto di vista abitativo, e quel sogno appare sempre più lontano. Rifare Miracolo a Milano oggi significa raccontare un momento simile, con la stessa lucidità che ebbero De Sica e Zavattini. La loro “favoletta” era in realtà un’acutissima ricostruzione del terreno della speculazione edilizia: i poveri sbaraccati, spinti ai margini, e una città che si trasforma senza includere».
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