L'atomica di Hiroshima non ha scongiurato il rischio di un'apocalisse

Un filosofo tedesco, Günther Anders, ha ragionato a lungo sulla necessità di un codice morale dopo il disastro evocato dal nucleare. La lezione giapponese otto decenni dopo sembra non essere servita
August 4, 2025
L'atomica di Hiroshima non ha scongiurato il rischio di un'apocalisse
Ansa | Protesta contro il riarmo nucleare
Nel giugno del 1958 Günther Anders atterrò all’aeroporto di Tokyo, dove nei giorni seguenti avrebbe dovuto partecipare alla conferenza mondiale per il disarmo. Il filosofo tedesco non era mai stato fino a quel momento in Giappone, anche se da alcuni anni aveva costantemente pensato a quanto era avvenuto nel paese del Sol Levante al termine della guerra. Fin dai giorni immediatamente successivi ai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki si era infatti reso conto della portata degli eventi. E negli anni seguenti non aveva cessato di ripensarci, facendo dell’era atomica il centro delle proprie riflessioni. Nelle pagine di L’uomo è antiquato aveva esposto le proprie tesi sulla cecità degli esseri umani dinanzi all’apocalisse atomica. E aveva inoltre iniziato a condurre una campagna volta a mettere in guardia dalle implicazioni delle armi nucleari, con una tale perseveranza da apparire, persino agli occhi di alcuni tra i suoi amici, una sorta di “specialista dell’angoscia”. Giungendo in Giappone, non poté evitare di visitare i luoghi della catastrofe e di incontrare i superstiti dei bombardamenti. E annotò i dettagli di quegli incontri in un quaderno che, qualche tempo dopo, divenne un volume, L’uomo sul ponte. Diario di Hiroshima e Nagasaki (Mimesis, pagine 274, euro 18,00), ora ripubblicato in una collana interamente dedicata al filosofo e diretta da Michela Latini e Natascia Mattucci.
Nel suo diario – che era già apparso in Italia all’inizio degli anni Sessanta, con un titolo differente – Anders riprende, in forma meno elaborata, le tesi centrali di L’uomo è antiquato. Sottolinea così, innanzitutto, come la comparsa delle armi atomiche abbia sancito un cambiamento radicale e irreversibile della condizione umana. L’umanità, da quel momento, è destinata a “vivere con la bomba”. Perché, anche nel caso in cui si riuscisse a giungere al disarmo completo e alla distruzione di tutti gli ordigni nucleari esistenti, la “tecnica” non verrebbe meno. E questo significa che la lotta contro la bomba sarà “una lotta che non finirà mai”, sarà cioè il destino cui saranno chiamate tutte le generazioni future.
Hiroshima e Nagasaki hanno inoltre modificato per sempre il significato dei termini “pace” e “guerra”. E gli stessi test nucleari, che le grandi potenze hanno continuato a effettuare (provocando peraltro vittime indirette), ne sono testimonianza. Anders a questo proposito annota sul proprio diario: «Da noi in Europa c’è un vecchio modo di dire: “La guerra è una continuazione della politica con altri mezzi”. Oggi è vero l’opposto: ciò che si dice a torto “pace” è la continuazione o la preparazione della guerra con altri mezzi». D’altronde, la stessa parola “guerra” non può essere più adeguata per descrivere la catastrofe che potrebbe scaturire da un conflitto atomico. E persino la sconfitta del nemico cessa di essere l’obiettivo principale dello scontro bellico. La possibilità di combattere è annullata. E la guerra, più che un’azione strategica, diventa un’azione puramente tecnica, che esclude sia il vecchio concetto di ostilità sia l’odio che si poteva provare in battaglia nei confronti del nemico. «Chi, premendo un bottone, distrugge qualcosa a migliaia di chilometri di distanza, non può provare odio, né ardore combattivo, e rimane quindi incapace di odiare: non si può digrignare i denti premendo un tasto».
Partecipando alla conferenza, Anders propose che i lavori giungessero a formulare una sorta di “codice morale” adeguato all’era atomica. Si trattava di una proposta sconcertante per molti, e soprattutto per coloro che ritenevano che fosse più urgente giungere rapidamente al disarmo e allo smantellamento degli arsenali nucleari. La sensazione era cioè che il codice proposto da Anders fosse del tutto irrilevante, dal momento che non avrebbe modificato il comportamento di nessuno. Il filosofo tedesco era ben consapevole di questo, eppure riteneva che quel codice morale fosse necessario per smuovere le coscienze, per indurre a prendere atto del rischio di un’apocalisse atomica. Anche perché i destinatari dovevano essere soprattutto gli statisti. «I principi che dovremmo stabilire», chiariva infatti ai propri interlocutori, riguardano «quasi esclusivamente i potenti della Terra, quelli che hanno nelle loro mani un potere di cui non riescono nemmeno a farsi un’idea».
La proposta di Anders fu accolta con parecchio scetticismo, dovuto in parte alle difficoltà di traduzione che la collaborazione con scienziati e intellettuali di altri paesi comportava. Fu così recepita solo parzialmente e la conferenza alla fine si limitò a stendere un appello. La conclusione fu deludente per il filosofo, che però non cessò di combattere la propria battaglia di “specialista dell’angoscia”. E in seguito i movimenti per il disarmo attinsero anche ai suoi scritti.
Dopo la fine dell’equilibrio bipolare l’incubo di un’apocalisse scomparve dalle preoccupazioni dell’opinione pubblica, sostituita da altri spettri. Negli ultimi anni, il ritorno della guerra sul territorio del vecchio continente ha invece fatto ricomparire nel dibattito l’eventualità di un conflitto nucleare. Ma sembriamo ormai quasi assuefatti alla minaccia dell’uso di armi atomiche. Nelle discussioni degli esperti di studi strategici, il rischio di un conflitto nucleare viene anzi spesso liquidato come uno scenario poco credibile, anche se non viene escluso il ricorso ad armi “tattiche” (di cui molto di rado vengono però chiarire le conseguenze). In questo modo anche l’apocalisse atomica sembra “normalizzata”, trasformata in qualcosa di controllabile. Ma è proprio per questo che le pagine di Anders sono tanto importanti anche oggi. Ci mostrano infatti cosa implichi in realtà quella tecnica e come modifichi il significato della guerra e dell’ostilità. E ci ricordano, come scriveva il filosofo tedesco, cosa davvero significhi “vivere con la bomba”.

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