L’apocalisse da Nobel di László Krasznahorkai
Il premio per la letteratura va allo scrittore ungherese, maestro dalla scrittura ipnotica, che pone al centro la domanda del male e della fine

Magari è una coincidenza, magari le coincidenze non esistono. Oppure vale un’altra ipotesi, per cui le coincidenze esistono, sì, ma possono essere interpretate e, attraverso l’interpretazione, diventare segni. In questa prospettiva, la letteratura diventa uno strumento di interpretazione, è l’esito di uno sguardo che non si sottrae alla complessità del reale e anzi la affronta fin a renderla intelligibile, fosse anche solamente per via di intuizione simbolica. Di questa sostanza è fatta appunto la letteratura di László Krasznahorkai, lo scrittore ungherese insignito del premio Nobel 2025 «per la sua opera avvincente e visionaria che, nel mezzo del terrore apocalittico, riafferma il potere dell’arte». L’eventuale – e interpretabile – coincidenza sta in quell’aggettivo, “apocalittico”, che rimanda alla prima esortazione apostolica di Leone XIV, Dilexi te, il cui testo è stato diffuso in contemporaneità quasi perfetta con l’annuncio dell’Accademia delle Scienze di Stoccolma. Com’è noto, il titolo del documento papale viene dall’Apocalisse, per l’esattezza dal capitolo terzo. «Sappiano che io ti ho amato», dice il Signore alla Chiesa di Filadelfia, e questo deve bastare. Questo basta, da sempre e per sempre. Amare, essere amati.
Evitiamo gli equivoci. Krasznahorkai non è cattolico e, in generale, non nutre troppa simpatia per le istituzioni ecclesiastiche. Si tratta di una diffidenza in buona parte indotta dalla storia recente e recentissima del suo Paese, dove la religione è stata spesso impugnata per ragioni di propaganda. In questo senso, si può ravvisare una paradossale continuità tra l’ateismo comunista e l’esibito tradizionalismo dell’era Orbán. Non per niente, Krasznahorkai non se la passava bene sotto l’ancien régime socialista (prima della caduta del Muro di Berlino, i suoi libri circolavano nel mercato clandestino) e oggi non fa mistero della scarsa simpatia verso il Governo in carica. Non per questo rinuncia a servirsi della lingua materna, il magiaro, che sostiene di apprezzare in virtù della struttura singolarmente articolata. Per i lettori, e più ancora per i traduttori, Krasznahorkai è il tipico caso di autore dalla sintassi lussureggiante. Periodi labirintici, paragrafi incastonati l’uno nell’altro, una sensazione di vertigine che sconfina nell’ipnosi.
Krasznahorkai non è un credente, dicevamo. Eppure, per molti aspetti, la sua narrativa può essere accostata a quella dello svedese Jon Fosse, vincitore del Nobel per la letteratura nel 2023 e cattolico per meditata, febbrile conversione. Non diversamente da Fosse, Krasznahorkai prende la quotidianità sul serio, radicalmente sul serio. Al cospetto dei suoi libri, si ha l’impressione che i personaggi siano intenzionalmente portati al punto di rottura, fino a quando il loro rapporto con il mondo si sdrucisce o esplode (di solito si sdrucisce, più raramente esplode), lasciando trapelare il disegno di una trama inaspettata. È, per esempio, lo scenario di Satantango, il romanzo che nel 1985 segna l’esordio di Krasznahorkai e dal quale, nel 1994, il regista Béla Tarr trae un film che sancisce la felice collaborazione con lo scrittore (leggenda vuole che Tarr abbia suonato alla porta di Krasznahorkai per proporgli un progetto e che Krasznahorkai, in segno di benvenuto, gli abbia chiuso la porta in faccia).
Nell’invenzione di Satantango, la profonda provincia ungherese si configura come un territorio ancestrale, visitato da apparizioni ambigue e sconcertanti. Accade lo stesso nel capolavoro della prima maturità di Krasznahorkai, Melancolia della resistenza, che porta la data del fatidico 1989 (il libro è disponibile nella versione italiana di Dóra Mészáros e Bruno Ventavoli presso Bompiani, che ha in catalogo anche gli altri libri dell’autore nella traduzione di Dóra Várnai: il prossimo, Panino non c’è più, è annunciato per il 2026). Di nuovo una cittadina sperduta, di nuovo una serie di accadimenti inspiegabili e, di nuovo, l’azione insondabile e mesmerica della musica, che per Krasznahorkai costituisce molto più di una suggestione. Musicale nel senso più proprio del termine è infatti la partitura di romanzi come Guerra e guerra del 1999 (un’allegoria del presente prossimo concepita in termini di installazione concettuale), Il ritorno del barone Wenckheim del 2016 e Herscht 07769 del 2021, nel quale l’ammirazione per Bach va di pari passo con l’attesa di una catastrofe incombente.
Che l’immaginario di Krasznahorkai si nutra di materiali teologici è una circostanza ammessa dallo stesso autore, che ha più volte dichiarato la propria fascinazione per il racconto ultimativo dell’Apocalisse, parola definitiva e nel contempo oggetto di un negoziato metafisico che, nella fattispecie, trae spunto dai soggiorni dello scrittore in Oriente (un resoconto illuminante è offerto dalle prose di Seiobo è discesa quaggiù del 2008). Ma anche sull’Apocalisse, come sulle coincidenze, occorre intendersi. Si potrebbe temere che sia la fine di tutto oppure, al contrario, sperare che sia il momento in cui tutto finalmente si mostra così come dev’essere. Alla sua maniera – una maniera fittamente concatenata e solo in apparenza tortuosa al pari delle sue frasi interminabili – Krasznahorkai è probabilmente del secondo parere, quello che considera l’Apocalisse rivelazione di un inizio e non ammissione di una sconfitta.
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