La storia occidentale è anche questione di tatto

“Il senso dimenticato” dello spagnolo Maurette è un riuscito esempio di “popsofia”, che spazia da Lucrezio a Melville e Canetti. Alla ricerca dei mille risvolti dell’esperienza del toccare
July 29, 2025
La storia occidentale è anche questione di tatto
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Quale senso è più importante per la vita? Questa domanda, che tutti talvolta ci poniamo, soprattutto dinanzi a qualcuno che abbia problemi di vista o di udito, appassionava già i filosofi antichi. Nella Metafisica Aristotele risponde con sicurezza che gli uomini «amano, più di tutti, il senso della vista», perché «ci fa conoscere più di tutti gli altri e ci rende manifeste numerose differenze tra le cose». Platone la pensava alla stessa maniera: la vista «è il più acuto dei sensi permessi al nostro corpo», come risalta anche dal fatto che gli occhi sono, tra gli organi di senso, «quello che nell’aspetto più ricorda il sole». La filosofia antica è tutta percorsa da questa preoccupazione.
E non solo la filosofia antica. La disputa sui sensi riappare vivacissima per tutta l’epoca illuminista, specialmente in Francia. Sono famosi scritti di Denis Diderot come la Lettera sui ciechi a uso di quelli che ci vedono (1749) e la Lettera sui sordi e i muti (1751). Qualche anno più tardi, Etienne de Condillac, nel suo Trattato delle sensazioni (1754), sostiene invece che, per quanto il senso «che istruisce tutti gli altri» sia il tatto, il più sottile è l’udito, perché «può sentire distintamente più suoni insieme». Proprio su questo argomento, Gottfried E. Lessing, nel suo Laocoonte (1776), stabilisce una gerarchia delle arti: la poesia, che si serve di suoni (e fa quindi capo all’udito), può rappresentare solo eventi successivi, mentre la pittura rappresenta eventi simultanei, che solo la vista è in grado di cogliere.
Del resto, etologi e zoologi distinguono, anche tra gli animali, quelli “a mentalità visiva” (come i primati) da quelli “a mentalità olfattiva” (come il gatto o il cane), secondo il senso che guida primariamente la loro conoscenza del mondo esterno. In questa chiave, gli umani possono essere considerati animali “a mentalità visiva e uditiva” (essendo molto meno ricco il loro odorato), con un peso diverso per i due sensi.
Questa panoramica a volo d’uccello basta a mostrare che la disputa tra filosofi e scienziati si è concentrata soprattutto su vista e udito (e secondariamente l’olfatto), mentre il tatto appare solo qua e là, quasi un “senso dimenticato”. Questo è appunto il titolo dell’istruttivo e interessante libro del filosofo argentino Pablo Maurette (Il senso dimenticato. Breve storia del tatto, Il Saggiatore, pagine 214, euro 18,00), che si propone di mostrare che, a dispetto della apparenze, il tatto (nelle sue varie forme) percorre tutta la storia della cultura occidentale. Ricchissimo di riferimenti (tra filosofia, letteratura antica e moderna, cinema e altre forme simboliche, con numerosi riferimenti italiani) e molto ben scritto, il lavoro è un esempio interessante di popsofia, lo stile filosofico oggi in voga, avverso alle usanze accademiche, in cui elementi autobiografici dell’autore si intrecciano a inattesi riferimenti a campi e oggetti atipici e marginali e non mancano le lepidezze e le trovate bizzarre.
Muovendosi abilmente nel suo fittissimo reticolo, Maurette si concentra in modo speciale su alcune opere-mondo. Nel De rerum natura lucreziano, il cosmo stesso nasce dal contatto di atomi e tutti sensi, a dispetto della varietà degli organi, percepiscono venendo toccati dagli atomi. Inoltre, al senso del tatto sono dedicati secondo Maurette «alcuni dei passaggi più memorabili di Moby Dick». Tra questi il capitolo 94 (“Una spremuta delle mani”) in cui si descrive l’operazione con cui Ismaele estrae lo spermaceti (la preziosa sostanza presente nel cranio della balena, un tempo usata per produrre candele, unguenti, saponi, pomate e cosmetici) e lo spreme per estrarne i grumi e impedire che si solidifichino. In questa laboriosa operazione, le mani di Ismaele percepiscono un mondo tra il liquido e il solido, viscido e colloso, una sorta di potente sintesi delle forme di percezione che il tatto può ricevere.
Il tatto ha una peculiarità unica, che Maurette mette bene in evidenza nell’ultimo capitolo (“Una questione di pelle”). Mentre gli altri sensi hanno un organo dedicato, il tatto appartiene a tutto il corpo, in particolare alla pelle, e più ancora a mani, dita e bocca. E siccome coinvolge anche le membra e la bocca, sarebbe necessario distinguere anche gli atti e le operazioni che si compiono con gli organi di tatto: la bocca e la lingua, per esempio, servono a toccare, leccare, baciare, ma anche per percepire la temperatura di un corpo, per serrare un oggetto, per fumare. Il libro di Maurette dedica un lungo capitolo a quella che chiama, un po’ spiritosamente, “filematologia” (dal greco classico phílema “bacio”), in cui ripercorre la fenomenologia del bacio tra cinema, letteratura e arti, tra eros e affetti, anche se trascurandone la dimensione etologica.
La mano e le dita hanno un campo d’azione più vasto, che sarebbe difficile ridurre a catalogo. Menziono solo due gesti tattili, che mi pare siano sfuggiti a Maurette. Il primo è la palpazione, il tipico gesto del medico, che permette, con una raffinata gradazione di pressioni, di ispezionare gli organi interni in modo delicato e non invasivo. Anche l’esperto di tessuti (la sarta, lo stilista, il designer) tocca le stoffe per apprezzarne la testura, servendosi di una foltissima terminologia. La seconda azione cruciale del tatto è quella della mano sul corpo e sul volto, che ha una vasta gamma di gradi e di tipi: dallo schiaffo alla stretta, dal pizzicotto al frottage, dal buffetto alla carezza.
In un’opera che si propone come “una storia” totale, sia pur breve, e che per questo abbraccia un’enorme varietà di riferimenti (difficilmente ritrovabili, però, data la mancanza di un indice dei nomi e degli argomenti) è facile trovare lacune. Ne segnalo amichevolmente alcune che mi paiono interessanti, e che mostrano come in effetti, nella storia, il tatto non sia del tutto dimenticato. Una delle opere saggistiche più acute del nostro tempo, Massa e potere di Elias Canetti (1960), si apre con queste frasi lapidarie, che hanno quasi il timbro di postulati: «Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto». E subito dopo: «Tutte le distanze che gli uomini hanno creato attorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati». Il resto del gran libro è una fittissima documentazione storica ed etnologica di queste massime. Il toccamento ha del resto una complessa etologia: i potenti, per esempio, non si possono toccare. Il museo del Prado ospita più di una tela che rappresenta una infanta con la sua governante, tenute insieme in un unico abito dalla lunga manica, che parte dalla spalla dell’una e finisce alla spalla dell’altra, unendole nel momento stesso in cui impedisce all’una di toccare l’altra.
Le considerazioni di Canetti non sono mere pepite intellettuali: della loro profonda verità ognuno ha fatto esperienza nella lunga epoca del Covid, quando l’obbligo e lo scrupolo di rispettare il “distanziamento sociale” – cioè di evitare di toccarsi, restando a distanza – erano diventati ossessivi, e accostandosi troppo a una persona si correva il rischio di scatenare reazioni pericolose. La «prontezza cui gli altri si scusano se ci toccano involontariamente», «la reazione violenta e a volte aggressiva» che suscita l’esser toccati mostrano infatti, secondo Canetti, che nel rifiuto di esser toccati è in gioco «qualcosa di molto profondo, sempre desto e sempre insidioso, di qualcosa che non lascia più l’uomo da quando ha stabilito i confini della propria persona». Tutti infatti conosciamo frasi di ripulsa come: “Metti giù le mani!”, “Non mi mettere le mani addosso”, che marcano il rifiuto del contatto e il bisogno di preservare il confine rappresentato dalla propria pelle. Del resto al tatto è connesso il contagio, cioè il morbo che si prende da un altro col solo toccarlo.
Quanto alla carezza, una delle forme primarie del contatto con la mano, è singolare che Maurette la ignori, trascurando il posto centrale che essa occupa nella filosofia di Emmanuel Lévinas, che ha influenzato non poco filosofi e scrittori. Prendo a caso un passo da uno delle sue numerose opere, Il tempo e l’altro (1979; in italiano dal Nuovo Melangolo, 2005), in cui Lévinas costruisce una sottile metafisica della carezza. Questa è «un modo di essere del soggetto, in cui il soggetto, nel contatto con un altro, va oltre questo contatto. […] Quel che è accarezzato non è, propriamente parlando, toccato. Non è il vellutato o il tepore della mano data nel contatto ciò che la carezza cerca. Della carezza, la ricerca costituisce l’essenza, in quanto la carezza non sa quel che cerca. […] La carezza è come un gioco con qualcosa che si sottrae, un gioco assolutamente privo di progetto e di piano, non con ciò che può diventare nostro e noi stessi, ma con qualcosa d’altro, sempre altro, sempre inaccessibile, sempre a venire».
La storia del tatto è ancora in corso. Nel mondo d’oggi tutte le sfere sensoriali hanno subito alterazioni e formidabili potenziamenti il cui significato non sempre si può cogliere con chiarezza. La mediasfera avviluppa ormai tutta la nostra vita. Un visore indossabile rende visibile la realtà aumentata; l’intelligenza artificiale può farci vedere immagini, fisse e in movimento, di entità inesistenti, o udire suoni o voci prodotti da algoritmi; si può fare chirurgia endoscopica senza toccare con le mani il corpo del paziente. Da un device elettronico possiamo per ora estrarre solo segni, immagini e suoni. Ma non è detto che prima o poi non se ne possano estrarre sapori, odori e perfino cose da toccare. La punta del dito di E. T. (lo straordinario personaggio di Steven Spielberg) si illumina per guarire il taglio che il suo amico Elliott si è fatto sul dito.

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