La morte non spezza la trama dei legami

In tre libri il filo conduttore è dato dalla permanenza della vita: nei ricordi di chi rimane nelle frasi sussurrate in oggetti all’apparenza insignificanti
November 2, 2025
La morte non spezza la trama dei legami
L’installa-zione “Golden Gate” di Danaiel Gonzalez all’ingresso del cimitero monumentale di Bergamo
Nel giorno dei morti tre libri che mostrano facce diverse della stessa medaglia: la morte come fine, certo, ma anche come soglia, relazione, scelta, racconto che resta: si tratta del De morte di Ottiero Ottieri (Utopia, pagine 128, euro 18), di Morire. Istruzioni per l’uso di Simon Boas (Garzanti, pagine 136, euro 15) e di L’ultimo viaggio. Storie di vita e di fine vita di Angelo Ferracuti e Giovanni Marrozzini (il Saggiatore, pagine 200, euro 18). Il filo conduttore è il modo in cui possono essere letti, ovvero come varianti di uno stesso tema: la fine non solo come evento fisiologico o biologico, ma come esperienza esistenziale, culturale, relazionale. Se in Ottieri il morire è vissuto come parte integrante della vita che lo anticipa, in Boas la malattia e la morte diventano occasione per una riflessione sul vivere e in Ferracuti-Marrozzini il morire diventa testimonianza, riconoscimento, attraverso le storie di chi accompagna, chi soffre, mostrando come la morte coinvolga molti attori, e non solo colui che muore. Tutti e tre i libri mettono in luce il valore della memoria, del racconto, il tema dell’elaborazione, perché morire significa anche lasciare qualcosa, un ricordo, una traccia, una storia, e chi resta si trova a fare i conti con questo lascito. Più volte su queste pagine abbiamo parlato del lascito digitale in rapporto alla morte, qui invece sono centrali altre riflessioni che riguardano la società, il tema della medicalizzazione e l’assistenza al morente, interrogativi profondi che non possono non richiamare in qualche modo anche il lavoro di Cicely Saunders – fondatrice dei moderni hospice – e il suo richiamo teorico clinico, che evidenzia l’importanza dell’accompagnamento nella morte e la dignità del morente, chiave utile per questi temi anche e soprattutto in una dimensione di cura oltre la fine. Si tratta di prospettive che vedono la morte non solo come abbandono, ma come fase da vivere fino in fondo: in Ottieri nella presa di coscienza della fine, in Boas nella riflessione personale sul vivere e il morire, in Ferracuti-Marrozzini nell’attenzione verso chi accompagna e verso le storie che restano.
Il nucleo centrale è che morire è anche un modo di restare, un modo di continuare a significare, una parte della vita stessa, come diceva Saunders. Non si tratta solo di questioni etiche o spirituali, ma di ripensare la centralità della persona, rinnovare l’importanza del tempo che precede la morte, la necessità di dare senso, voce e dignità a ciò che accade nel passaggio. In De morte Ottieri fa diverse riflessioni, prima fra tutte dimostra che anche la letteratura consegna all’oltre, specie in una società in cui morire passa spesso per una sconfitta in una battaglia: «Il pensiero della morte è un sintomo tipico del pensiero della depressione, ma il senso della morte è il più indispensabile al senso della vita». E ancora: «La coscienza della morte mi rende fragile e superbo, misero e grande». Boas dal canto suo tenta di smontare la paura attraverso un pensiero che prova a riportare la morte nel campo dell’umano: un processo da capire, non un abisso da evitare: «Penso a come la gente si ricordi di me. Vorrei che lo facesse con un grande sorriso. E vorrei che pensasse a me come a un libro che sono stati contenti di aver letto». Il suo è un importante lascito spirituale dopo una diagnosi di carcinoma nel 2023, a quarantasei anni; al centro non c’è la lotta, come appunto spesso capita, ma un’occasione per tornare umani, anche nella riscoperta delle piccole cose. Ferracuti e Marrozzini, con L’ultimo viaggio, danno infine voce a chi vive e lavora accanto alla soglia, persone come medici, infermieri, familiari, volontari, mostrando quanto il fine vita possa essere un grande luogo collettivo, fatto di relazioni, scelte, ascolto. Il libro si apre con una celebre frase di Carver in esergo – «e hai ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto? Sì. E che cos’è che volevi? Potermi dire amato, sentirmi amato sulla terra» – cui fa seguito un incipit significativo, commovente, che indica bene quanto sottile talvolta possa essere il confine tra vita e morte: «Sotto c’è la vita che scorre. Si arriva da una strada transitata, ci sono le auto che sfrecciano, il piccolo rituale della gente che cammina». È un libro sussurrato quello di Ferracuti e Marrozzini, fatto di frasi pronunciate con fili di voce e raccolte con delicatezza, oggetti che risaltano nella loro apparente insignificanza, lenzuola bianche rimboccate, stanze che da un giorno all’altro si riempiono e si svuotano in un ciclo costante.
Tutti e tre i libri, in fondo, si muovono dentro la convinzione di Saunders: morire è ancora vivere, e ciò che resta non è solo il corpo, ma la trama dei legami, gli sguardi e le parole che accompagnano. In un tempo che tende a rimuovere la morte, questi testi compiono un gesto quasi opposto: la riportano al centro, ricordandoci che parlarne è un ulteriore modo di riconoscere la vita, darle spessore, non lasciarla dissolversi nel silenzio o nel tabù. Questi testi ci ricordano in qualche modo che nascita e morte sono opposti, mentre la vita non ha opposti ma scorre, come il tempo. Tuttavia, in qualche modo, anche vita ha un suo contrario, anzi in un certo senso molti. Bene cantavano Dalla e De Gregori: «Cosa sarà che ti fa morire a vent’anni anche se vivi fino a cento». Ecco, in quella negazione della vita c’è il suo contrario, anche in un desiderio che talvolta tutti abbiamo di non essere. Anche a questo serve un certo caos, le interferenze, le pietre d’inciampo e le vorticanti inattese variazioni di ritmo della vita, il ribollire, le deviazioni, la capacità di emozionarci ancora e ancora. E in questo si collega al nucleo concettuale dei tre libri non solo il pensiero di Saunders, ma anche quello di Frank Ostaseski, insegnante guida e direttore fondatore dello Zen Hospice Project di San Francisco, che parte dalla fine come luogo di consapevolezza, con una dimensione più ampia, spirituale e umana: la morte, spiega nei Cinque inviti, in qualche modo insegna anche a non rimandare, ad accogliere, a ritrovare la tenerezza nel mezzo delle cose frenetiche della vita. La morte quindi non come nemica della vita, ma come compagna, in continuità.

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