La lingua ebraica nei secoli, una casa sacra e profana
Dagli usi liturgici fino a quelli quotidiani, l’idioma ha attraversato i secoli e si è mescolato con altre lingue

Fino a rinascere tra ’800 e ’900 in Palestina Sara Kaminski e Maria Teresa Milano sono due esperte di lingua e cultura ebraica. In questo volume, Il palazzo dell’ebraico (Claudiana, pagine 136, euro 14,50), hanno immaginato la lingua biblica come un palazzo a sette piani, l’ultimo dei quali è un’ampia terrazza condominiale. E quale bene comune è più condiviso di una lingua? Se vale per tutte le lingue, vale a maggior ragione per l’ebraico, di cui l’archeologia da un lato e le Scritture dall’altro attestano antichità e versatilità. L’icona del palazzo, solenne come una residenza aristocratica ma pure ordinaria come un condominio urbano, è perfetta per esprimere la storia di quest’idioma, nel quale ancora oggi si scrive e si legge la Torà e le altre fonti della fede ebraica ma con il quale da un secolo e mezzo ci si esprime pure nei luoghi prosaici della vita: al supermercato, in banca, a un’assemblea, appunto, condominiale. E come un palazzo ha molti piani, così la lingua ebraica ha molti vani e strati, costruiti uno sull’altro nei secoli e abitati dai personaggi più diversi, uomini e donne, padri e madri, maestri/e e discepoli/e, ognuno ancora ricordato come pilastro, esempio e paradigma per la vita di Israele. Questo volume è un viaggio nella storia e un po’ anche nella geografia, dove l’ebraico è fiorito e ha dato frutti di saggezza, è stato legame per comunità grandi o piccole che poi, in vicissitudini liete e tristi, si sono spostate, sono migrate e hanno animato altre terre e nuovi paesi, solcando persino gli oceani. Dove non si parla ebraico oggi? Dove non sorgono scuole di questo lessico e di questa grammatica, che è risorta più viva che mai di tra lingue all’apparenza morte? Ma l’ebraico non è mai morto: è sempre vissuto nei testi religiosi, studiati e scrutati per carpirne segreti e soprattutto regole di vita; è sopravvissuto a ogni forma di assimilazione culturale, forzata o deliberata; infine ha animato il popolo nel suo viaggio di ritorno alla terra del “giuramento divino”, dove l’intera saga familiare e nazionale ha preso avvio. Esiste un popolo ebraico perché esiste una lingua ebraica; e se anche fosse vero l’inverso, il fascino delle combinazioni delle ventidue lettere che ne compongono l’alfabeto non verrebbe scalfito. Entriamo dunque nel palazzo, guidati dalle due ebraiste che nella vita sono anche molte altre cose (traduttrici, insegnanti, cuoche, alpiniste e tanto altro) e che da anni collaborano a Torino nella divulgazione di questa lingua, per così dire, sacroprofana. Il pianoterra di quest’area palatina è tutto un brulicare di esseri viventi e di piante, capaci a loro volta di parlare (in ebraico s’intende) e di capirsi; è un intreccio di rimandi all’inizio della storia stessa, al giardino della creazione, nel quale a un certo punto, creatura tra le creature, spunta un essere umano, maschio e femmina come tutti gli altri animali e piante. Sopra tanta sinfonia di voci d’animali, anche di quelli meno graditi come gli insetti, resta dominante la maestosa figura del re Salomone, famoso per le sue doti di etologo. Donde attingono, Kaminski e Milano, gli affreschi e i colori e i suoni e i profumi che incontriamo in ogni stanza del loro palazzo? Dalla Bibbia, anzitutto, ma poi dal tesoro inesauribile dei midrashim e delle aggadot, che assommano in parte a quel che gli antropologi chiamano folklore, nel senso di materiali prodotti dal popolo e per il popolo (che in questa letteratura è il popolo ebraico), anche quando nella vita quotidiana parlava altri idiomi. Ma per attingere al senso del proprio destino, l’idioma era e doveva restare quello sacro. Salendo al secondo piano, eccoci dinanzi al principe degli esegeti e dei commentatori, quel Rashi il cui nome era ancora Salomone, con il quale dal XI secolo in poi si accompagna, ad oggi, ogni studio dei testi biblici e talmudici. Il terzo piano invece ospita una varietà sfuggente di figure enigmatiche, a tratti persino tragiche, perché spesso indistinguibili dagli spiriti maligni o benevoli che le invadono (tipo dybbuk o magghid, per chi sa cosa siano). È il piano più difficile da attraversare, ma che illustra come la cultura ebraica sia stata recettiva di tutte le culture e gli idiomi dei popoli nei quali gli ebrei hanno vissuto. Il quarto piano ci introduce nella magìa del chassidismo, dove le lettere dell’ebraico vengono usate anche per scrivere un nuovo gergo popolare, lo yiddish. Per affabulare il lettore, Kaminski e Milano presentano qui quel geniale rebbe che fu Nachman di Breslav, gran narratore di allegorie, che non smette di attirare sulla propria tomba in Ucraina folle di giovani discepoli biancovestiti (anche sotto le bombe russe). Il quinto piano, meritoriamente, è riservato a Eliezer Ben Yehuda, che, se non fosse stato per lui, forse oggi in Israele la lingua per fare la spesa sarebbe il tedesco o lo yiddish. Fu l’ingegnere e l’operaio più ostinato e battagliero della rinascita della lingua ebraica moderna, a cavaliere tra XIX e XX secolo in una Palestina all’epoca ancora ottomana. Se tale lingua non venisse direttamente dal monte Sinài, Ben Yehuda meriterebbe ben più di un piano nel palazzo dell’ebraico. Grazie a lui abbiamo oggi la cosiddetta “letteratura israeliana”: Abraham B. Yehosshua, Amos Oz, David Grossman, Meir Shalev... e tutte le poetesse e i poeti che occupano, nel volume di Kaminski e Milano, l’intero sesto piano, Rachel Bluwstein in testa. E qui occorre dire che l’originalità del libro sta appunto nell’abbondanza di poesie, liriche, versi liberi e piyyutim o inni religiosi che costellano e illuminano ogni angolo di ciascun piano. Se ben compreso, direi che questo è anche un volume di poesie tradotte dall’ebraico, un’antologia che raccoglie i migliori poeti e poetesse dell’ebraismo da ogni diaspora e da ogni città di Israele. E siamo arrivati in cima, al settimo e ultimo livello del palazzo, al terrazzo condominiale: è lo spazio della comunità, delle feste come lo shabbat, il capodanno ( rosh hashanà) e le capanne ( sukkot) – ma l’elenco è lungo – dove la gioia di popolo è un precetto, dove tale lingua è la sola che riesce a esprimere il senso profondo di quella gioia: shabbat shalom, chag sameach, shanà tovà, chatimà tovà, negli auguri reciproci di quella pienezza di cose belle e buone e giuste che la tradizione ebraica riserva ai giusti, ebrei e non ebrei alla pari. Non parliamo della vista che si gode dalla terrazza. Kaminski e Milano ci descrivono il paesaggio gerosolimitano facendoci sentire il rammarico della nostra lontananza e l’amarezza dell’esilio, attenuati solo dai suoni agrodolci di strofe e versetti ebraici che quel paesaggio hanno reso immortale e insieme accessibile ogni volta che lo si studia, lo si ascolta o lo si parla.
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