Italia e Africa: in cento anni dai silenzi alla cooperazione
Lo storico Borruso inquadra gli antefatti del Piano Mattei. Nel Dopoguerra il nostro Paese ebbe la fiducia dei leader del continente, nonostante l’impunità per i criminali fascisti

Il rapporto dell’Italia con l’Africa rivela un’evoluzione storica tutt’altro che lineare ma necessaria, oggi, per motivare approcci positivi e proficui. Lo stesso rilancio d’interesse per l’Africa, espresso con il “Piano Mattei”, esige di tornare alle radici di una storia di lungo periodo, se si vogliono aprire prospettive nuove di relazioni, non solo in campo politico ed economico ma anche di interscambio culturale. Dagli anni ’70 ad oggi significative ricostruzioni e analisi hanno portato alla luce un tema a lungo rimosso nella memoria pubblica nazionale, quello dei crimini coloniali commessi dall’Italia nei suoi possedimenti africani. I coraggiosi studi di Angelo Del Boca e Giorgio Rochat svelarono la documentazione che attestava, per la prima volta, l’uso di armi chimiche – iprite, fosgene, arsina –, autorizzato direttamente da Mussolini, nonostante il divieto imposto dalla conferenza di Ginevra del 1925, e finalizzato ad assicurare una rapida vittoria per la conquista dell’Etiopia tra l’ottobre 1935 e il maggio 1936. Nei primi mesi del ’37, a partire dall’attentato al maresciallo Graziani del 19 febbraio (12 Yekatit in lingua amhara secondo il calendario cristiano etiopico), si verificarono ripetuti massacri, culminati nell’eccidio di religiosi e laici cristiani nel santuario etiopico di Debre Libanos e dintorni nel mese di maggio, con oltre 2.000 vittime. Allo scempio va aggiunto il trafugamento di beni sacri di grande valore, sottratti nel santuario e mai ritrovati. Nell’evolversi di questi eventi non mancarono le responsabilità, seppure indirette, della Chiesa cattolica, le cui posizioni espresse da molti vescovi ed ecclesiastici a sostegno della conquista fascista dell’Etiopia – nonostante la disapprovazione del papa Pio XI –, nonché l’inspiegabile silenzio degli ambienti missionari di fronte ad episodi di violenza estrema fecero mancare un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. Di queste vicende si sono perse le tracce nell’orizzonte culturale pubblico e istituzionale. I loro responsabili non furono mai processati. Il maresciallo Rodolfo Graziani, diretto mandante, finì la propria carriera militare a Salò e, dopo la seconda guerra mondiale, fu condannato a pochi mesi di reclusione per collaborazionismo con Salò ma non per le azioni criminose in Africa, giungendo alla carica di presidente onorario del Msi. Quali i motivi di tale oscuramento della memoria? Per l’Italia, la perdita dei possedimenti d’oltremare nel corso della seconda guerra mondiale, sancita dal trattato di pace italiano del febbraio 1947, e il nuovo corso repubblicano motivarono “silenzi” e rimozioni, con cui s’intendeva esorcizzare una storia dai molti lati oscuri e dalle facili “assoluzioni”.
Paradossalmente, la forzata recisione con quel passato africano consentì all’Italia di inserirsi nella nuova Africa indipendente, delineando un significativo ruolo di mediazione tra Europa e Africa, di cui la classe dirigente cattolica si rese interprete, ma che trovò l’adesione anche della sinistra, in particolare il Pci, già impegnato nel sostegno alle lotte di liberazione nelle colonie portoghesi. Si ponevano, così, le basi di una politica di cooperazione, che divenne lungo gli anni ‘60 e ‘70 un settore importante di convergenza di attori di differenti orientamenti e culture politiche, come Dc, Pci, Psi. In questo contesto, anche la Chiesa cattolica e il mondo missionario non mancarono di manifestare simpatia per i processi di indipendenza, ritenuti una transizione epocale e legittima, benché disapprovassero l’uso della violenza: proprio nell’ottobre ’67 – pochi mesi dopo la Populorum progressio – il papa Paolo VI pubblicò l’importante e innovativa lettera apostolica Africae terrarum, primo documento della Chiesa cattolica dedicato interamente all’Africa e alle sue nuove prospettive.
La cooperazione allo sviluppo divenne uno degli strumenti principali di una politica estera tesa a proporsi come interlocutore di rilievo per lo sviluppo del continente africano e la soluzione delle sue crisi, con effetti benefici sulla distensione internazionale. Benché membro dell’Alleanza atlantica, l’Italia veniva percepita da molti leader africani come un interlocutore affidabile, non appiattito sulle logiche della guerra fredda e vicino alle istanze della nuova Africa. È una stagione di significative mobilitazioni della società civile, nelle sue variegate espressioni, come l’invio di aiuti umanitari nella guerra del Biafra (1966-1970) e il sostegno alle lotte di liberazione e anti-apartheid in Africa australe. In connessione con queste dinamiche, prendeva corpo un filone storiografico – a partire dalla molteplice opera Gli italiani in Africa orientale di Angelo Del Boca –, destinato a mettere in luce fatti e misfatti del colonialismo italiano, in particolare fascista, e a decostruire lo stereotipo dell’«italiano brava gente», affermatosi nei decenni del dopoguerra, mentre comparivano le prime opere di autori italiani e stranieri, che attribuivano per la prima volta all’Africa un’inedita soggettualità storica.
Questa ricchezza di esperienze s’impatta con il 1989 e la caduta del Muro di Berlino: il protagonismo africano delle indipendenze, già incrinato dalle numerose crisi postcoloniali, viene drasticamente ridimensionato dalla caduta d’interesse legata alla fine della guerra fredda, respingendo l’Africa in quella periferia della storia da cui era faticosamente uscita nel corso delle indipendenze. In Italia, si apriva una stagione di forti contraddizioni, tra sussulti di solidarismo collettivo e sollecitazioni lungimiranti – come quelle della Chiesa cattolica e del mondo associazionistico – e brusche prese di coscienza dell’animo razzista degli italiani e fobie «afropessimiste». L’omicidio del giovane sudafricano Jerry Essan Masslo, avvenuto a scopo di rapina nell’agosto del 1989 nelle campagne di Villa Literno, porta alla luce una questione razziale non più eludibile, già manifestatasi in modo strisciante in altri episodi di violenza nei confronti di immigrati africani.
La percezione dell’Africa viene compressa ed appiattita sotto la spinta del fenomeno immigratorio, inizialmente dissimulato tra le nuove povertà urbane, poi sempre più visibile e classificato con categorie rozze e sprezzanti a proposito di un “pericolo nero”, da cui difendere una presunta omogeneità identitaria italiana. La stessa comprensione del fenomeno appare limitata alla questione sociale, ma del tutto disconnessa dalla prospettiva storica di lungo periodo e dalle conoscenze acquisite, che avevano legato l’Italia al continente africano. Gian Paolo Calchi Novati, africanista di alto profilo, constatava con lucidità una retrocessione dell’Africa, dopo il 1989, nella periferia della periferia, nonché un progressivo affievolimento degli interessi italiani, a scapito di una storia di lungo periodo, che aveva connesso l’Italia con l’Africa e si era proiettata in una prospettiva di nuovi sviluppi e rapporti. L’Italia cominciava, così, a perdere quella dinamicità acquisita con un’estroversione animata da persone, passioni e iniziative, verso il continente della sponda sud, mentre pareva avvitarsi in un clima dominato da sentimenti di spaesamento e paura di fronte a mondi esterni, come l’Africa, che si riversavano nel paese con una presenza inedita e crescente. In controtendenza, si distingueva la tenacia della Chiesa cattolica e dello stesso papa Giovanni Paolo II nel tenere in vita un’attenzione appassionata verso le crisi ed i possibili sviluppi del continente, di cui furono espressione i suoi numerosi viaggi nel continente e il primo Sinodo dei vescovi dedicato interamente all’Africa (1994). Ed anche in questo inizio XXI secolo, un’attenzione portata pienamente avanti da papa Francesco con ripetuti viaggi e, evento centrale, l’apertura dell’Anno giubilare straordinario nel 2015 a Bangui, nella Repubblica Centrafricana. È in questa contraddizione l’origine di un nodo irrisolto, non solo politico ma anche culturale, destinato a riproporsi drammaticamente fino ad oggi, davanti al quale la “conoscenza storica” – per usare la nota categoria di Henri-Irénée Marrou – si profila come l’unica prospettiva in grado di restituire all’Africa il reale spessore di un indissolubile legame con l’Italia e l’Europa: un nodo con cui l’Italia non ha ancora fatto i conti fino in fondo e che merita oggi riconoscimenti concreti e risposte adeguate ad una visione di lungo periodo.
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