Il giallo perde il sangue e diventa confortevole e alla portata di tutti

Il genere “cosy crime” ripudia i toni splatter e vede protagoniste esperte di pollini, preparatrici di salme che sono anche dedite alla pasticceria, grafologhe, galleriste, investigatrici
August 8, 2025
Il giallo perde il sangue e diventa confortevole e alla portata di tutti
Maxim Hopman / Unsplash | Il giallo alla portata di tutti
Sono romanzi gialli, sì, ma del genere accogliente: questo significa – accogliente, confortevole - il termine inglese cosy, utilizzato per definire quel genere crime che rinunciando ai dettagli splatter, alle analisi del dna e degli schizzi di sangue, alle descrizioni minuziose e - diciamolo - qualche volta stomachevoli delle scene del crimine affida la soluzione degli omicidi al ragionamento, all’analisi del carattere dei sospettati, dei loro vizi e delle loro virtù, nello stile di miss Marple e di Hercule Poirot. Agatha Christie è stata una maestra del cosy crime molto prima del cosy crime. I protagonisti dei romanzi non sono quasi mai investigatori professionisti, piuttosto intelligenze prestate all’investigazione, vuoi per caso o per passione. Contraddice, ma solo in parte, questa regola non scritta Lena Malinverni, botanica forense. Il suo campo è la palinologia, la scienza che studia i pollini. « Nemmeno il più attento dei criminali può prevedere quello che posso trovare. Io sono l’altro modo – spiega Lena nelle prime pagine del romanzo allo scettico commissario che la irride – e l’arma più recente e sofisticata di una scienza ancora nuova e pionieristica, eppure estremamente precisa. Una scienza che può collegare posti e persone, escludere gli innocenti e indicare i colpevoli quando tutto il resto fallisce. Perché quello che io indago, così piccolo, così ignorato da gente come lei, è allo stesso tempo così pervasivo che persino il più avvezzo degli assassini non potrà mai scrollarselo di dosso né farlo sparire del tutto dalla sua vittima».
E saranno proprio pollini, spore e funghi a risolve il caso dell’omicidio di Eva De Luca, scomparsa dopo essere stata sfigurata con l’acido da un maniaco, i cui resti vengono ritrovati anni dopo, con rametti sul petto a formare un pentacolo e una corona di alloro sulla testa. L’indagine si svolge sull’Appennino romagnolo, a Blochei, dove viene scoperta la sepoltura, e a Ravenna, dove abitano i protagonisti. Oltre a Lena Malinverni sono il commissario Massimo Severi – un cliché: belloccio e scontroso, con qualche scheletro nell’armadio – ed Elia Bevilacqua, antropologo piacione con una passione (non proprio sotto controllo) per i super alcolici. Linfa Nera (Sem, pagine 336, euro 18,00) è il primo thriller scritto da Elisa Bertini e – come si legge nella quarta di copertina – è già destinato a diventare una serie tivù. Tanto la palinologa è ruvida – instabile, ambientalista d’assalto, che salta i pasti ma non la corsa quotidiana – tanto Fortunata Tiozzo Pizzegamorti si potrebbe definire soffice: la sua passione è la pasticceria, ed è meglio di un professionista quando sforna torte e brioche, ma il suo lavoro è la tanatoprassi. Prepara i morti per la sepoltura, li fa belli. Non è quel che vuole dalla vita ma l’impresa di famiglia vanta secoli di onorato servizio, a Venezia. Cosa che non impedisce ai veneziani di farsi da parte per evitare anche solo di sfiorare gli impresari funebri più famosi della città.
A coinvolgere Fortunata nelle indagini della Guardia di Finanza è il suo padrino, il colonnello Dante Braghin: Dimmi che non vuoi morire (Salani, pagine 304, euro 16,00) è la seconda indagine che vede la tanatoesteta indagare su un giro di usura nel quale è rimasto intrappolato anche il padre. La sua copertura sarà sostituire a casa del ricchissimo notaio Alvise Gritti, la cuoca defunta - morta in un incendio doloso, prone babilmente appiccato proprio per ucciderla - e lavorare nel locale della chef stellata Luisa Bellan. Un sogno che si realizza. Ma sarà destinato a durare? Coprimari sono l’agente Vito Sabelli, che appare e scompare nella vita di Fortunata lasciandola ogni volta con il cuore in frantumi, e Andrea, l’amico che vorrebbe essere qualcosa di più: l’insistenza sulla sua incondizionata adorazione risulta a tratti un po’ stucchevole.
Oltre ai passaggi della ben congeniata indagine, Stefania Crepaldi, l’autrice, descrive con cura i piatti preparati da Fortunata -e qualcuno fa davvero venire l’acquolina - e i suoi percorsi attraverso Venezia inserendo nelle atmosfere criminali l’umidità della nebbia e il profumo dei pasticcini. È ambientato a Catania La regola dell’ortica (Feltrinelli, pagine 256, euro 15,00), scritto da Nunzia Scalzo e con protagonista la grafologa Bea Navarra che, a sessant’anni dai fatti, si trova a dover fare una perizia calligrafica sul biglietto d’addio di una donna morta suicida. Forse... Il tono del biglietto e le poche parole che compongono il messaggio, tra l’altro inusuali, non hanno mai convinto la famiglia di Norma Speranza, sparatasi – stabilì l’inchiesta – con una carabina dopo una furente lite con il marito, indicato dai parenti della donna come il vero colpevole.
A raccontare come si svolsero i fatti, ciascuno secondo il proprio punto di vista, sono i protagonisti di allora – gli inquirenti, il portiere dello stabile, l’amica di una vita, vicini di casa, parenti, amici e nemici - attraverso pagine di diario, verbali di interrogatori, conversazioni, registrazioni. Nunzia Scalzo – davvero grafologa forense – fa descrivere a Bea Navarra gli strumenti del lavoro: microscopio ottico, stereo microscopio, esame a infrarosso, indagine a luce violetta, a luce incidente, a luce radente, a luce trasmessa, l’esame in polarizzazione della luce riflessa. Che servono, fa specificare alla protagonista, a risolvere i casi più comuni di falsificazione. Già, perché per quelli complessi servono indagini più dettagliate, per esempio di natura chimica per la datazione e la composizione degli inchiostri. E saranno proprio l’inchiostro e una penna conservata oltre mezzo secolo a portare Navarra alla soluziodel caso. Torino e la sabaudade sono protagonisti principali insieme ad Adele Tedeschi, gallerista, di La finestra del terzo piano, scritto da Paola Darò (Piemme, pagine 304, euro 18,00).
È agosto, non si respira dal caldo, e in cerca di refrigerio, come ogni sera, Adele si concede la prima e l’ultima sigaretta della giornata sul terrazzo di casa. Guarda il palazzo di fronte: al terzo pianto, abitudinario anche lui, si gode sigaro e musica un anziano signore. Lo stesso che il giorno dopo viene rinvenuto cadavere. Shock anafilattico, dovuto alle fragole, che forse potrebbe far pensare a un incidente o a un suicidio se non fosse per quel dito di meno, tagliato di netto alla seconda falange. L’uomo era un pittore di una certa fama nel dopoguerra e l’incontro casuale con la nipote di lui coinvolge Adele non solo nella realizzazione di una mostra retrospettiva dedicata all’opera di Simone Benelli - che si firmava con lo pseudonimo The Redeemer, il redentore - ma anche in un’indagine sulla sua morte. E sulla sua vita, dove niente è come sembra. Perché anche se pensiamo di conoscere benissimo le persone che amiamo, la realtà qualche volta – o, forse, spesso – ci smentisce.

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