Da Omero a Caproni: il patriarcato alla prova della letteratura

In un saggio di Giorgio Ficara viene analizzata la crisi della figura paterna da Omero a Caproni, con la poesia che diventa una chiave di lettura
July 8, 2025
Da Omero a Caproni: il patriarcato alla prova della letteratura
- | La piccola Gertrude e il principe padre in un’illustrazione di Francesco Gonin
Giorgio Ficara lo scrive già all’inizio di questo libro venturoso, Il padre sulle spalle (Einaudi, pagine 198, euro 17,00), significativamente sottotitolato Debolezza del patriarcato in letteratura: nonostante qualche ipotesi contraria - mettiamo il Bachofen teorico del matriarcato -, «sembra che la “legge del padre” sia antica quanto l’uomo e goda tuttora di discreta saluta». Una legge - nota il critico - che in letteratura è stata imposta da «padri spaventosi», come il principe padre nei Promessi sposi di Manzoni, «una figura di despota fraudolento, colpevole di annullare nella figlia, “per il suo bene”, ogni principio e spunto di vita». Colpisce però - aggiunge Ficara - «una ricorrenza contraria»: questo tipo di padre è «spesso alla prova e quasi allo specchio di un altro padre, appena sfocato e malinconico, essenzialmente indeciso: un «nuovo padre possibile, interprete debole, discontinuo, della legge paterna», come per esempio Priamo, «che viene a supplicare in lacrime alla tenda di Achille per riscattare il corpo di Ettore», o come Ettore stesso che ascolta «commosso Andromaca che lo implora di voler essere padre, piuttosto che guerriero morto», e che «per un istante (centrale tuttavia nel poema) perde quota eroica», effettivamente vacillando. O come Anchise, Brunetto Latini e «il buffo Giulio Cesare di Shakespeare, che “geme come una fanciulla”. E che dire di Monaldo Leopardi, finalmente liberato dalla greve mora degli ostili pregiudizi che l’hanno sempre schiacciato? Celebre «per essere stato padre, più che per essere stato Monaldo»: «passato alla storia come retrogrado e piccolo, era invece un uomo sentimentale, benigno, attento ai figli - innanzitutto a Giacomo - come una vecchia balia». Meglio: un genitore dotato tuttavia d’«una speciale intelligenza del cuore che, tra alti e bassi, distanze più o meno definitive e proteste di affetto, mantiene tra i due un registro emotivo continuo». Tutti padri, questi citati, «distratti, eccentrici», eppure «autorevoli nella loro anomalia».
In un libro come Ildisagio della civiltà - ci ricorda Ficara - Freud sostiene «che la cura del Padre celeste per l’umanità, paragonabile alla cura d’un padre terreno per il figlio, è un mito “manifestamente infantile”». Più precisamente, come Freud talvolta ribadisce, «il padre è Dio e Dio è solo un padre di livello più alto». Verrebbe da obiettare - e sarebbe fin troppo facile - che a essere filosoficamente puerili sono solo le parole dell’inventore della psicanalisi: senza nemmeno bisogno di ricordare, per altro, alcuni capitoli della storia della teologia occidentale, in specie quelli relativi all’incommensurabilità del rapporto Dio-uomo. Parole, quelle freudiane, che rimangono totalmente prive d’efficacia quanto al Nuovo Testamento e alla figura del Cristo, o di fronte al dogma della Trinità, al suo mistero. A Dio quale Padre celeste Ficara, consapevole di quanto ardua sia la questione, dedica per altro l’ultima parte del libro - sei capitoli -, che si conclude con lo stupefacente Padre nostro di Simone Weil, quella di Attesa di Dio. Basterebbe opporgli, infatti, quanto lo scrittore racconta - in pagine sorprendenti - d’una poesia di Giovanni Giudici che ha come protagonista il poeta bambino, il quale assiste tremante alla scena d’un creditore che aggredisce suo padre Gino, debitore insolvente: «Da un momento all’altro, il bambino è solo, disconosce il padre oltraggiato, si stacca da lui, lo tradisce, “finge di appartenere ad altri”». Il padre-dio rovina così miseramente a terra, «non è che un ladruncolo contro cui “sbràita” il giusto che chiede giustizia». Mentre il figlio del dio «diventa un orfano smarrito, che guarda attorno nella piazza se un passante lo porti con sé». Venivano prima di queste, però, le belle pagine su Carlo Sbarbaro («Un padre dal “cuore fanciullo”»), Domingo Montale («Il padre riluttante»), Ugo Edoardo Poli, il padre di Saba («un monello gentile») e Attilio Caproni: genitori così diversi, ma che consentono al critico di scommettere felicemente, quanto alla possibilità di capire la vita, sul primato gnoseologico della poesia.
Si diceva di Ettore: che «va da solo - impavido, temerario - verso la morte sul campo di battaglia». Dico Ettore: lo sterminatore di Achei soggiogato dal suo «obbligo di gloria» che però, in un momento di commossa tenerezza, pare cedere alla supplica di Andromaca. Con Ettore siamo all’alba della cultura patriarcale: eppure, proprio nel momento aurorale in cui il patriarcato si celebra, il passo marziale dell’eroe troiano si mostra per un istante claudicante. Scrive Ficara: Ettore «è il personaggio che, per primo forse, con il suo accidentale e nuovo “gesto” paterno, contrasta, se non altro, il vecchio e inflessibile (e formidabile) “discorso simbolico” del padre». Il fatto è, però, che ogni padre, persino il più patriarcale, serba nel profondo di sé il figlio che è stato. Vero è, infatti, che questo libro sul padre ne dissimuli di fatto un altro, forse ancora più urgente: quello che istituisce senza indugi l’indagine sul figlio. Non sarebbe così centrale altrimenti, e già dal titolo, la figura di Enea: è lui, infatti, a portare il padre sulle spalle protetto dai Penati, affinché serbi intatta l’idea di famiglia, che alla figura del padre di necessità si lega. Un Enea inseguito fino ai versi di Caproni del 1956: «Dall’Enea virgiliano a Giorgio Caproni passano duemila anni (…). Sulla spiaggia di Trapani, lo abbiamo visto, alla morte di Anchise, Enea protesta vivamente: perché “qui, padre, mi lasci”? A Livorno, come se fosse passato appena un giorno, Caproni echeggia: “perché tu o padre mio la terra/abbandoni?”». A Enea si oppone però - ontologicamente, non solo psicologicamente - Telemaco, il figlio abbandonato da Ulisse (il padre assente per antonomasia), «primo di tutti i figli lasciati soli», di quell’esercito di orfani e trovatelli, i «senza famiglia», che sembrano nati da sé stessi, come per abiogenesi: Lazzarillo, Tom Jones, Barry Lyndon, Renzo Tramaglino, Tom Sawyer. E si potrebbe continuare.

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