Così Cioran attraversò l’esilio della lingua. E punzecchiò Sartre
Arrivano in Italia gli “Esercizi narrativi” del pensatore franco-rumeno, libro spartiacque nel suo cammino intellettuale

«Se per un prodigio le parole svanissero, la nostra ebetudine, la nostra angoscia diverrebbero intollerabili. L’improvviso mutismo ci ridurrebbe al supplizio più crudele. È l’uso del concetto che ci dispensa dal contatto con terrori che attraversano la vita». La parola, l’espressione, il concetto sono al centro della riflessione di E.M. Cioran, in particolare tra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo passato. Lo testimonia il frammento citato e ora confluito in Esercizi negativi. In margine a «Sommario di decomposizione» (pagine 266, euro 16,00), il volumetto curato da Ingrid Astier e reso in italiano da Cristina Fantechi con la stessa cura per le parole coltivata nel tempo dal pensatore romeno. I pensieri inediti che compongono il libro, da oggi a disposizione del lettore italiano grazie alla casa editrice milanese Adelphi, sono il frutto della ricerca della parola adatta e dello stile opportuno.
Al lavoro sulla parola, alla cui politura e dirozzamento Cioran deve il suo esilio più radicale, la separazione dalla propria lingua materna, dedica le sue maggiori energia all’indomani del suo trasferimento in Francia, avvenuto nel 1937. Il lavoro sulla lingua non ha però nulla di intellettualistico ma mira all’“esercizio” più grande: quello che risponde ai problemi suscitati dall’incandescenza della storia, dai suoi travagli e dai suoi tormenti. I testi inediti e gli appunti preparatori ritrovati nei 447 fogli conservati nel Fondo Cioran della Bibliothèque littéraire Jacques Doucet e raccolti in Esercizi negativi sono qui a testimoniarlo. Indirettamente e direttamente. Indirettamente perché alcuni di essi ripropongono nei contenuti la questione della lingua e del concetto filosofico. E direttamente perché tutti sono l’esito di un lavoro meticoloso condotto dal pensatore romeno sulle parole. Grazie ai pensieri ora a disposizione in Esercizi negativi, il titolo che originariamente avrebbe dovuto recare il Sommario di decomposizione, si attraversa per la prima volta il varco che conduce al laboratorio del primo libro di Cioran scritto, nel 1949, in francese. Un libro, frutto di diversi rifacimenti prima di essere pubblicato, e che segna uno spartiacque nel suo cammino di pensiero non tanto per i contenuti ma per lo stile con cui li esprime. Una questione niente affatto trascurabile.Pubblicato per la prima volta Oltralpe vent’anni or sono, Esercizi negativi raduna testi prevalentemente contemporanei alla redazione del Sommario e uno, Mihail Eminesco, risalente a qualche anno prima, apparso nel 1943 sulla rivista “Comoedia”, ma incluso nella raccolta perché fonte di alcune parti del libro del passaggio di Cioran al francese. A essi sono stati aggiunti dalla curatrice altri frammenti che anticipano, per la loro concisione, il passaggio alla successiva fatica di Cioran, I sillogismi dell’amarezza, uscito invece tre anni dopo, nel 1952. Entrando nel laboratorio di pensiero, o forse più correttamente, di scrittura del pensatore della Transilvania, ci si imbatte anche in più versioni di uno stesso testo. Ognuna di esse mostra lo sforzo profuso dallo scrittore per limare la forma, cercare lo stile e rifinire la parola in modo da dare espressione a pensieri che restituiscano il loro contenuto in maniera fredda e distaccata. Nessuna maniacalità per la grammatica e la sintassi dunque malgrado Cioran ricorra, per correggere il suo francese, a un amico basco, Lacombe, ritenuto un “fanatico del congiuntivo imperfetto”, un “maniaco della correttezza”, un “purista incallito”, ricorda la curatrice del volume. La ricerca della perfezione linguistica, di là dagli esiti teoretici, sarà coronata, nel 1950, con il premio Rivarol. Eppure la perfezione formale non sarà mai il suo fine ultimo. Lavorare sulla lingua gli serviva a suggellare il passaggio dal romeno al francese, da una lingua gravida di slancio emotivo e pathos a una adatta al rigore della precisione cartesiana. Da una lingua carica di trasporto a una che gli consentisse di esprimere il pensiero in maniera distaccata come se i suoi contenuti fossero osservati al microscopio.
A questa urgenza se ne aggiunge un’altra, quella di scrivere direttamente in francese. Esigenza nata dell’impossibilità di tradurre il proprio pensiero in un’altra lingua ma anche dalla necessità di sublimare l’esilio fisico con quello linguistico. L’occasione che fa maturare questa consapevolezza nasce dall’impossibilità di rendere in romeno Renouveau di Stephane Mallarmé. L’inadeguatezza della traduzione non porterà Cioran a un blocco ma a un passaggio. Nell’infruttuosità dei tentativi di volgere nella sua lingua materna i versi del poeta simbolista intravede una crisi di lingua, sottolinea Ingrid Astier nella postfazione, che divampa durante l’estate 1947 nei pressi di Dieppe. In una conversazione del 1977, Cioran ritornerà sulla questione e ricorderà ancora questa impasse ritenendola come «il più grave infortunio che possa capitare a uno scrittore, il più drammatico».
Il passaggio dal romeno al francese non costituisce quindi un tentativo di integrazione alla nuova cultura. Rappresenta un passaggio, e in particolare un passaggio teoretico. L’intraducibilità di un pensiero da una lingua a un’altra non è una questione tecnica di padronanza lessicale. Nasce dal rifiuto di una Stimmung tipicamente romena, per Cioran, caratterizzata da quel lirismo e trasporto “balcanico” che riversava nei suoi libri giovanili. Un lirismo che solo il francese gli consentirà di abbandonare acquisendo un’altra postura spirituale dinanzi alle sue ossessioni. I travagli del tempo, l’empito della storia, la sofferenza del nulla già presenti nei suoi scritti romeni ora potranno essere affrontati con un diverso atteggiamento, un atteggiamento di distacco, ricercato prima attraverso mistici e santi e ora trovato grazie al francese di Vauvenargues e Descartes. «Il passaggio al francese - precisa la curatrice nella postfazione - è il risultato di una conversione, ma anche di un travestimento, per combattere l’effusione e l’aneddoto sul piano della scrittura, e l’eccesso sul piano delle idee». Anche se la lingua che offre il distacco può offrire la sopravvivenza dalle ossessioni a Cioran e il successo da “impresario” a Sartre, come si scopre nelle righe che pubblichiamo sotto per gentile concessione dell’editore.
«Sartre, l’uomo senza emozioni conquistatore di tutto lo scibile»
Proponiamo un estratto dal volume di E.M. Cioran Esercizi negativi. In margine a «Sommario di decomposizione», a cura di Ingrid Astier, traduzione di Cristina Fantechi.
di E.M. Cioran
Niente di più inevitabile – se non di più divertente – che assistere, in una nazione snervata da alcuni secoli di gusto, alla comparsa di un Barbaro la cui vitalità trionfa su una tradizione di finezza e la cui ampiezza mentale si fa beffe delle superstizioni del finito e e dell’equilibrio. Quando l’intelligenza francese, dopo aver dato fin troppo prova di sé, pareva minacciata dalla sterilità, arrivò Sartre, come un rinnovamento sconcertante, per impadronirsi di tutti i campi del sapere e con una tale smania di mutarne i termini, se non i dati, che un movimento superficiale venne scambiato per uno sconvolgimento e una curiosità così vasta per profondità. Tanta energia negli artifici dell’intelletto, tanta facilità nell’abbordare tutti gli ambiti dello spirito e della moda e tanta esasperazione per essere a ogni costo contemporaneo dovevano e devono abbagliare. Sartre è un conquistatore, attualmente il più prestigioso. Nessun problema gli resiste, nessun fenomeno gli è estraneo, nessuna tentazione lo lascia indifferente: tutto per lui si presta a essere abbordato e vinto, dalla metafisica fino al cinema. È un impresario di filosofia, di letteratura, di politica, il cui successo ha soltanto una spiegazione e soltanto un segreto: la sua mancanza di emozione ; non gli costa niente affrontare qualsiasi cosa, poiché non ci mette nessun accento personale, e tutto non è se non il frutto di un’intelligenza omnicomprensiva, immensa, la più notevole al momento.
La filosofia esistenziale rappresentava un orientamento del pensiero, a metà strada fra il sistema e l’ispirazione; il lirismo vi svolgeva la sua parte; il suo valore di impopolarità le veniva dalle angosce e dai tormenti soggettivi inaccessibili al grande pubblico; richiedeva persino una sorta d’iniziazione a infelicità rare e inutili, incompatibili con la salute e la storia. Kierkegaard dissimula sotto dei concetti i suoi momenti di grande cedimento, i suoi terrori intimi, prossimi all’apocalisse e alla psichiatria; le impudicizie della malattia vi sono così ben velate da assumere il tono di un canto astratto e di una sapiente geremiade; vi sono riuniti Giobbe e Hegel, ma sono le esclamazioni del primo a dare quell’aria di vissuto, senza la quale parlare di disperazione e di morte sarebbe un’impostura. Heidegger ha raccolto da professore l’eredità di Kierkegaard: ne è risultata una costruzione magnifica, ma senza sale, in cui le categorie racchiudono le esperienze essenziali: un catalogo di angosce, uno schedario di disastri. Vi si insegnano le tribolazioni dell’uomo come la poesia della sua lacerazione. È l’Irrimediabile diventato sistema, ma non ancora riveduto né esposto come un qualsiasi articolo in commercio. Qui s’inserisce l’apporto di Sartre, manifattura di angoscia, ostentazione dei nostri ultimi turbamenti, attuazione dei nostri scrupoli e delle nostre inquietudini. La sua intenzione non fu certo quella di banalizzare i pochi grandi temi della filosofia esistenziale; d’altronde, L’Essere e il Nulla contiene pagine che superano, nel loro delirio terminologico, persino quelle più scoraggianti di Hegel e saprebbero affascinare soltanto i dilettanti, lusingati di muoversi nell’ignoto, e troppo felici di una valanga verbale che, soffocando le vere realtà, offre parole al posto di esperienze. La responsabilità di Sartre è, per così dire, unicamente storica; essa dipende dalla sua qualità, secondo noi, suprema, di contemporaneo; egli ha fatto di tutto perché le sue idee siano sulle labbra di tutti; mai nessuno ha sfruttato il proprio pensiero come lui ha sfruttato il suo, né vi si è identificato meno di lui. Nessuna fatalità lo perseguita: e se fosse nato all’epoca del materialismo, ne avrebbe avuto il semplicismo e gli avrebbe dato un’estensione insospettabile; se fosse vissuto in quella del romanticismo filosofico, ne avrebbe fatto una summa di fantasticherie; e se fosse comparso in piena epoca teologica, avrebbe maneggiato Dio con un’abilità senza precedenti. Non vivendo alcun dramma, è capace di tutti. Mentre in un Kierkegaard e in un Nietzsche si avverte che sarebbero stati eguali a se stessi in qualunque momento del tempo, che i loro abissi e le loro ossessioni erano verità di temperamento, indipendenti dalle sfumature di una civiltà, in Sartre si percepisce invece una mancanza di necessità interiore, che lo rende adatto a tutte le forme di pensiero. Infinitamente vacuo e meravigliosamente vasto, è il tipo del pensatore senza destino, pur avendone uno, straordinario, ma del tutto esteriore. La sua abilità e la sua sottigliezza nel prendere di petto i grandi problemi sconcertano: tutto in esse è notevole, salvo l’autenticità. Parla della morte, ma non ne conosce il brivido, i suoi disgusti sono riflessi; le sue esasperazioni fisiologiche come inventate a posteriori; egli [è] l’anti-poeta inevitabilmente parallelo ai sogni. Ma la sua volontà è così lucida e così efficace, che egli potrebbe essere poeta se lo volesse e, aggiungerei, santo, se ci tenesse. Questo intelletto demiurgico fa pensare a Valéry: ma questi era troppo artista; Sartre non soffre di una simile limitazione... Non ha, propriamente parlando, né preferenze, né prevenzioni; le sue opinioni sono accidenti; rincresce che ci creda; quello che interessa è soltanto il procedimento del suo pensiero... Se lo sentissi predicare dal pulpito non ne sarei più stupito che se lo vedessi fare professione di ateismo: poiché sembra indifferente a tutte le verità, le padroneggia e nessuna gli è necessaria o organica...
Una direzione di pensiero, pomposamente intitolata « esistenzialismo», e che avrebbe dovuto essere frutto del ripiegamento su se stesso, egli l’ha orientata all’esterno e, sostituendo il «noi» all’«io», ne ha fatto un principio di salvezza collettiva. Un libro appena comprensibile è diventato la Bibbia per tutti; pochi l’hanno letto, tutti ne parlano. È il destino della metafisica nell’epoca delle masse; il nulla circola; è sulla bocca di tutti... Rovescio della medaglia: a Sartre si rifanno il nichilismo da boulevard e l’amarezza dei superficiali...
(© 2005 Édition Gallimard, Paris / © 2025 Adelphi Edizioni s.p.a. Milano)
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