C'è un’ombra lunga del bonapartismo
Gli anni dal 1848 al 1852 in Francia sono caratterizzati da mutamenti traumatici simili a quelli che si stanno verificando oggi in Occidente. Lo studio di Faraci

I quattro anni che intercorrono tra la Rivoluzione del 1848 e il Secondo Impero, sono caratterizzati, nella società francese, da mutamenti traumatici nel rapporto tra cittadinanza, rappresentatività e corpi intermedi. Elena Gaetana Faraci, in Democrazia o Bonapartismo. La Francia e la crisi politico-istituzionale nella Seconda Repubblica (1848-1852), (Carocci, pagine 452, euro 46,00) si accosta a questi temi da storica delle istituzioni, confrontandosi con una varietà di fonti, non solo storiografiche e archivistiche, ma anche letterarie, come mette in luce Giuseppe Astuto nella sua prefazione. Le pagine di Victor Hugo e di Gustave Flaubert assumono infatti particolare rilievo nell’analisi degli eventi, accanto alle testimonianze di Karl Marx, di Alexandr Herzen, di Alexis de Tocqueville, di Adolphe Thiers e di altri protagonisti.
La Seconda Repubblica ereditava il carattere borghese della Monarchia di Luglio, scriveva Marx, e la nuova Costituzione, pur garantendo la sovranità dell’Assemblea in ambito legislativo, affidava al Presidente il controllo dell’esecutivo e delle forze armate. Non la pensava diversamente Hugo, per il quale «nella bottega dove si fabbricano le leggi», il Consiglio di Stato era il padrone di casa e il corpo legislativo il domestico. Il padrone di casa era però nominato da Napoléon le petit e la nazione nominava il domestico. Herzen, giunto a Parigi da Mosca nel 1847, non valutò i fatti alla luce di una teoria della storia, come Marx, ma comprese subito, scrive Faraci, che il suffragio universale era stato introdotto per legittimare un’assemblea “tirannica”, non per favorire la partecipazione democratica. Pur muovendo da premesse distanti da Marx, Tocqueville annotava, nei Souvenirs, che ci si trovava di fronte a «una lotta di classe, una specie di guerra servile», in cui i rivoluzionari volevano radicalmente «alterare l’ordinamento sociale» e non sostituire un governo. Tutto ciò era chiaro anche a Flaubert che, come risulta dagli appunti che precedettero la stesura de L’éducation sentimentale, aspirava a una trasformazione rivoluzionaria della società.
Il generale Cavaignac, che aveva garantito il ritorno all’ordine dopo le rivolte di giugno, sembrava il candidato più accreditato per la presidenza della Repubblica. Era infatti un repubblicano moderato che, come evidenzia Faraci, si rivolgeva a un’ampia fascia di elettori, proponendosi di onorare «i principi di Libertà, Eguaglianza e Fraternità rivelati al mondo tramite il Vangelo». Il partito orleanista non aveva un candidato forte e tendeva ad appoggiare Bonaparte, il cui programma si soffermava «sulle sorti dei lavoratori, ma senza mettere in pericolo gli interessi dei beati possidentes». Bonaparte appariva inoltre rassicurante anche a quanti non lo apprezzavano particolarmente, come lo stesso Hugo o Thiers, secondo il quale, non avendo la stoffa dell’uomo di stato, non poteva incutere timore ed era sicuramente il meno cattivo dei pretendenti.
Bonaparte raccolse i voti della destra, ma non gli mancò il consenso di parte della sinistra. Nonostante Marx sostenesse, come altri dopo di lui, che fosse espressione della popolazione contadina, Faraci fa rilevare che a Parigi, a Lione e a Bordeaux riuscì a prevalere sui suoi avversari. Il passato da rivoluzionario romantico, il socialismo populista del suo saggio del 1844 L’extintion du paupérisme e, al tempo stesso, le nostalgie per l’Impero, gli assicurarono un largo consenso, rafforzato anche dalla diffusa esigenza di porre fine a una stagione tumultuosa. Le contraddizioni di un programma che si proponeva di soddisfare i bisogni più diversi emersero presto, come dimostrò la rivolta, duramente repressa, del giugno del 1849 e il successivo intervento contro la Repubblica Romana. Al colpo di stato del dicembre 1851 seguì il plebiscito, che consentiva al Presidente di rimanere in carica per dieci anni. Il secondo plebiscito, un anno dopo, sancì la ricostituzione dell’Impero.
Lo strumento plebiscitario rappresenta il carattere costitutivo del bonapartismo, che come scrive Faraci rifacendosi a Pierre Rosanvallon, si può collocare nell’ambito della “democrazia illiberale”. Il cesarismo, che alimenta il modello bonapartista, vede nel capo carismatico la massima incarnazione del popolo e, nei corpi intermedi, l’elemento che ostacola la mistica unione. Il saggio costituisce una trattazione approfondita e critica del bonapartismo, consentendo di individuare con chiarezza i nodi essenziali di una concezione politica che, in forme diverse, continua a riproporsi fino ai nostri giorni.
Il 25 settembre del 2015 la filosofa ungherese Ágnes Heller, intervistata da Massimo Congiu sul “Manifesto”, dichiarava di riconoscere nella “democrazia illiberale” di Orbán «tutti i sintomi del bonapartismo». Ciò non era ben compreso a Budapest, dove Orbán è considerato fascista, commentava Heller, ma «quando ho fatto questa osservazione a Parigi tutti hanno capito».
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