giovedì 30 gennaio 2020
Il cantante in gara al Festival con «Carioca" nell'album in uscita il 7 febbraio critica i politici europei: «Tutti dovrebbero prendersi in eguale maniera la responsabilità di quello che accade»
Raphael Gualazzi  in gara a Sanremo con "Carioca"

Raphael Gualazzi in gara a Sanremo con "Carioca"

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«Il sogno di una vita celebrata ogni giorno nella sua bellezza e nell’unicità delle sue passioni, dove ogni singolo momento come in musica rappresenta il respiro dell’anima». Questo è il significato più profondo di Carioca, lo scatenato brano dal sapore latin jazz con cui Raphael Gualazzi torna dopo 6 anni in gara sul palco dell’Ariston. Scritto dallo stesso Gualazzi, insieme a Dade e a Davide Petrella, questo brano è il biglietto da visita per il nuovo album in uscita il 14 febbraio, dal simpatico titolo Ho un piano, nell’attesa di un tour da aprile nei teatri italiani. Un album scoppiettante, dove l’anima jazz di Gualazzi, si fonde musica urban, pop, elettronica, soul, africana e vintage in 11 brani che raccontano l’amore ma soprattutto il presente, tra temi sociali e ambientali. A colpire duro è Italià, un brano spiazzante dall’intro rossiniano di satira politica sul tema dei migranti. Italià, infatti, è una stoccata che un jazzista internazionale come Gualazzi lancia alla Francia, in cui è molto popolare, oltre che all’Italia sulle politiche sulle migrazioni.

Gualazzi, in questo brano il ritmo giocoso da cabaret contrasta volutamente con le immagini dei morti in mare?

La satira è solo una scusa per poter parlare di quanto sia importante il tema dell’ immigrazione. Dobbiamo collaborare perché dobbiamo fare tutti quanti insieme qualcosa a livello globale. Tutti quanti dovrebbero prendersi in eguale maniera la responsabilità di quello che succede, perché tutti sono stati colonialisti e adesso fanno orecchie da mercante. Il brano è nato in un momento in cui, mentre noi italiani ci dimenticavamo di essere stati una nazione di migranti, alcune persone dall’estero ci puntavano il dito contro, mentre proprio loro rafforzavano le barriere. Ora non mi faranno più suonare in Francia (ride).

C’è qualcosa che la riguarda personalmente?
Il fratello di mio nonno è stato un minatore, lavorava in una miniera di zolfo: partì all’inizio degli anni in America e vi lavorò 10 anni facendo lavori molto pesanti. Tanti dei nostri parenti hanno vissuto delle angherie, erano l’ultimo gradino della scala sociale in una società classista come quella americana dell’epoca.

Lei pure è un artista «migrante» che rappresenta l’Italia nel mondo.
All’estero sono percepito più come un musicista jazz, ma in Italia il jazz non ha abbastanza spazio. E così vivo questo dualismo, senza rimpianti né rimorsi. Una eterna commistione che asseconda la mia mai appagata curiosità e mi porta a sperimentare. Perché quello che può essere visto come un limite, alla fine diventa un’opportunità. Ed è incredibile vedere quali strade può prendere la musica. Io sono di base un ottimista.

Come in Carioca, il travolgente brano che porta a Sanremo?

Il brano, scelto dal direttore artistico Amadeus, vuole raccogliere un immaginario esotico. Questo brano è la fusione tra una salsa cubana e il latin jazz insieme insieme a delle sonorità urban in cui ci sono suoni elettronici che imitano una sezione di fiati della salsa cubana. Il testo dice di apprezzare ogni momento e ogni giorno della vita proprio come fa il carioca, l’abitante della città di Rio de Janeiro, nonostante le difficoltà. Carioca vuole rappresentare una festa, un grande momento di gioia e di spensieratezza e ed è il rifugio per un cuore spezzato.

Quali altri temi affronta nel suo nuovo album?

Con la collaborazione dei Mamacas in Vai via propongo un viaggio sinfonico orchestrale al limite dell’introspezione musicale per un brano che racconta quanto in una storia sia importante lasciare andare chi amiamo. È il più grande gesto d’amore che possiamo fare. Questa collaborazione sta inaugurando un progetto in fieri di lavorare anche con delle orchestre stabili.

C’è anche un brano contro la voglia di apparire dei social.

Si tratta di Nah nah che mostra il disgusto nei confronti di una superficialità che sta prendendo sempre più il sopravvento attraverso la cultura esasperata dell’immagine. C’è sempre stata, ma oggigiorno in alcuni casi porta ad eludere qualunque altro livello di lettura delle cose. Si tende a rimanere in superficie. Per questo motivo puoi rimanere prigionieri delle mode che ci vengono imposte o delle idee di altri. Quanto è bello invece, alcune volte, preservare la propria unicità. Ma anche qui sono ottimista: un giorno anche questi fenomeni troveranno il loro equilibrio.

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