sabato 23 ottobre 2021
In “Rifare la Bibbia” Piero Boitani passa in rassegna molti esempi di rielaborazione letteraria della Scrittura: «Un principio presente fin dall’inizio e decisivo per capire la “Commedia”»
Piero Boitani

Piero Boitani - archivio

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Nella prima edizione, uscita nel 1997 con il titolo Ri-Scritture, di Dante non si parlava. «E neppure di Shakespeare, se è per questo», ammette Piero Boitani, che ora torna sul tema in Rifare la Bibbia (il Mulino, pagine 344, euro 28,00). Mole più che raddoppiata rispetto al libro di quasi venticinque anni fa, del quale il presente è molto più di un ampliamento. Al centro dell’interesse di Boitani (uno dei maggiori critici italiani, professore emerito di Letterature comparate alla Sapienza di Roma e vincitore del premio Balzan nel 2016) rimangono gli stili molteplici e i modi innumerevoli mediante i quali poeti e romanzieri hanno rielaborato la Bibbia. “Ri-Scritture”, appunto, con un gioco di parole che, ricorda con un sorriso Boitani, non ci fu verso di far accettare all’editore inglese. «E sì – aggiunge – che nel contesto anglosassone e, in genere, nel mondo protestante la consuetudine con la Bibbia è molto più diffusa rispetto a quanto accada nel nostro Paese».

Eppure il più grande riscrittore della Bibbia è l’italianissimo Dante...

Dante non riscrive la Bibbia. La compone. La Commedia è programmaticamente il «poema sacro», nel quale confluiscono in forma originale elementi di provenienza non solo scritturistica. Dante ha una visione teologica, straordinariamente eclettica, in virtù della quale arriva a emulare la Bibbia stessa. Se prendiamo, per esempio, il racconto della Creazione presente nel XXIX canto del Paradiso, ci rendiamo conto che il poeta passa senza soluzione di continuità da immagini neoplatoniche a citazioni della Genesi, ne approfitta per correggere la dottrina di san Girolamo sulla natura degli angeli e infine si assesta su una rimodulazione delle categorie aristoteliche. Il tutto con una sicurezza sbalorditiva: solo Dante può pronunciarsi allo stesso modo della Bibbia, solo la sua perso- nalissima teologia riesce a competere con il dettato della Scrittura.

Quanto lo aiuta in questo la tradizione precedente?

La riscrittura non è una conseguenza della ricezione della Bibbia, ma un principio che agisce all’interno del testo sacro, fino a costituirne uno dei tratti determinanti. Soffermiamoci sulla Creazione. Com’è noto, in Genesi ne troviamo due versioni differenti, giustapposte l’una all’altra senza soluzione di continuità. Al cosiddetto “racconto sacerdotale”, contenuto nel primo capitolo, fa seguito nel secondo il resoconto di fonte jahvista, che descrive una realtà non del tutto coincidente con quella che ci è stata appena mostrata. È l’inizio di un percorso che attraversa tutto l’Antico Testamento, coinvolgendo con maggior evidenza i Salmi e i Libri sapienziali, primo fra tutti Giobbe. L’esito più vertiginoso si ha nel Nuovo Testamento, con il prologo del Vangelo secondo Giovanni. L’astrazione del Logos subentra alla concretezza del gesto con cui il Creatore impasta nel fango l’essere umano, come farebbe un vasaio. Si capisce subito che siamo in un contesto culturale fortemente influenzato dalla cultura ellenistica.

Questo significa che ogni riscrittura può vantare una sua legittimità?

Perfino la parodia, in un certo senso, è prevista dalla Bibbia. Nella fattispecie, l’Apocalisse allude con estrema libertà alle vicende dell’Esodo, le quali, a loro volta, sono già state narrate da capo nel Deuteronomio. Nel corso del tempo le riscritture bibliche si sono dispiegate su tutti i registri disponibili, come ho cercato di dimostrare nel libro. Non c’è alcuna pretesa di completezza, sia chiaro, però credo sia interessante scoprire come il metodo dell’esegesi biblica si possa applicare all’opera di William Faulkner o come già nel Medioevo ci si potesse rifare alla Scrittura in tono scherzoso, sul modello di Chaucer nei Racconti di Canterbury.

A proposito di Inghilterra: anche Shakespeare riscrive la Bibbia?

Nella sua opera le citazioni bibliche sono ovunque e questo dato, da solo, mi pare che confuti il pregiudizio, purtroppo ancora sostenuto da gran parte degli interpreti, di uno Shakespeare scetticamente agnostico, più vicino all’imperturbabilità di Montaigne che ai dibattiti teologici dell’età della Riforma. Pur senza inoltrarsi nella discussione sulla sua fede religiosa (in Amleto, a ogni buon conto, la menzione del Purgatorio rivela una certa dimestichezza con il cattolicesimo), resta indiscutibile l’importanza che la dimensione spirituale assume nello Shakespeare degli ultimi anni. Quando sentiamo Lear prefigurare a Cordelia un futuro in cui loro due, padre e figlia, andranno per il mondo come «spie di Dio», ci accorgiamo che qualcosa sta succedendo. Anzi, probabilmente è già successo. A darne conferma è la grandiosa successione dei drammi romanzeschi. Pericle principe di Tiro, Cimbelino, Il racconto d’inverno e, in conclusione, La tempesta insistono su un nucleo eccezionalmente compatto di situazioni. Il dispositivo ricorrente è quello del riconoscimento di una persona che si credeva perduta o addirittura morta. La riapparizione di Ermione nel Racconto d’inverno o di Marina e della madre Tasia in Pericle rientra nella dinamica della rappresentazione teatrale e per molti aspetti rasentano il trucco di scena, d’accordo. Ma in Shakespeare il riconoscimento comporta sempre una rinascita e ogni rinascita ha in sé il mistero della risurrezione.

In Rifare la Bibbia, in effetti, lei dedica molto spazio ai racconti evangelici della Risurrezione di Cristo.

Li trovo meravigliosi sul piano letterario, anzitutto, e meravigliosamente carichi di sviluppi. Basti pensare alla ricomparsa del figlio abbandonato, Menuchim, nel Giobbe di Joseph Roth. Oppure, per ritornare a Dante, alla profezia della risurrezione dei corpi che Salomone pronuncia nel XIV canto del Paradiso. Al termine del suo discorso, incentrato sulla ritrovata bellezza della «carne gloriosa e santa», le anime dei beati prorompono in un’esclamazione, «Amme!», che sta per “amen”. Ecco, una sola parola, la più comune della liturgia, è sufficiente a Dante per condensare in un’immagine la complessità di un avvenimento che è nello stesso tempo escatologico e familiare. La risurrezione, infatti, è attesa «non pur per lor», non per il beneficio che ciascuno dei beati può trarne, «ma per le mamme, / per li padri e per li altri che fuor cari / anzi che fosser sempiterne fiamme». La cerchia degli affetti domestici si riverbera nel cielo del Paradiso, in una corrispondenza che esalta tutta la tenerezza dell’amore, tutta l’inesauribilità della vita di relazione. Non è la Bibbia, ma davvero poco ci manca.

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