giovedì 4 agosto 2016
Oltre «Fin che la barca va» l'orgoglio di Orietta Berti
COMMENTA E CONDIVIDI
Voleva diventare maestra d’asilo, Orietta Galimberti; almeno finché il padre, melomane, non la spinse al canto. E finché approdò a un concorso di voci nuove, al Municipale di Reggio Emilia, a occhio con più prospettive dei talent odierni: se è vero come è vero che si piazzarono tra i primi dieci quel giorno del ’61 tali Zanicchi Iva, Morandi Gianni e appunto Galimberti Orietta, ovvero Orietta Berti. La quale oggi è incontrastata icona, perennemente in tour tipo Bob Dylan, della canzone cosiddetta “leggera” ossia nobilmente popolare: quella che allevia i pesi dell’anima parlando di e alle famiglie, fra sentimenti ma non solo. Perché Orietta Berti ha inciso testi su emigrazione (La vedova bianca), donna oggetto (Una bambola blu, Per scommessa), prostituzione ( Via dei Ciclamini). In cinquant’anni di carriera spesso giunta oltreconfine, la non-maestra d’asilo ha venduto sedici milioni di dischi, partecipato a film, fatto undici Sanremo e ottenuto cinque podi dello storico “Disco per l’Estate”. Senza mai banalizzare la sua professione di cantante né l’acquisito ruolo di onesta portavoce della vita d’ogni giorno; e malgrado la nostra patria, sempre amante di guelfi e ghibellini, negli anni Settanta abbia partorito per la critica musicale militante il triste assioma per cui solo l’impegno schierato era qualità. Faccenda che penalizzò via via Baglioni, Branduardi, Cocciante, Pooh, Zero, Mina e ovviamente pure la signora Berti: la quale si produce da sé dal 1984 per asserire fiera oggi «ho fatto tanto, in questa giungla: anche se i musicisti che mi lodano hanno poi paura a parlar bene in pubblico dei miei dischi». Ma tant’è. Chi la ascoltasse senza pregiudizi, Orietta Berti, noterebbe una voce come poche: potente, nitidissima, con incredibile (e apparente) facilità di modulazione e tenuta, mai priva della grana forte dell’emozione e mai usata senza pensare alle parole. Perché non è diventata maestra d’asilo, Orietta Berti: ma nella nostra canzone lo è di dignità e professionalità. Quanto contò la discografia dei primi anni Sessanta per farle avviare una vera carriera nella musica? «Senza figure come Giorgio Calabrese non sarei qui a parlarle. Fu lui, grande paroliere e direttore artistico, che mi vide a Reggio e volle il mio numero; poi lo perse, lo rintracciò da un telefono pubblico e mi portò sino alla Philips. Senza impormi mai nulla». L’ascesa dei cantautori penalizzò gli interpreti puri? «Tanto. Per questo iniziai ad autoprodur- mi scegliendo Umberto Balsamo come autore, e per questo le dico che nel tempo più dell’industria per me ha contato la famiglia: prima mio marito Osvaldo e ora i miei figli Omar e Otis, che cura suoni e scenografie. Però negli anni Settanta, quando incisi tre album di canti operai e delle mondine e un lp sulle musiche degli zingari che mi diede un nomade di origini bulgare, ero l’unica a lavorare. Andavano di moda multisala che alternavano disc jockey, liscio e canzone: io grazie a quegli dischi divenni icona della musica italiana non cantautorale…» Parliamone, di quegli lp, Più italiane di me, Cantatele con me, Così come le canto; di Zingari contenente anche un brano sulla perdita di un figlio; o di Futuro, pezzo di Sanremo ’86 che Lucio Dalla lodò per impegno civile e concretezza valoriale. Com’è che tutte queste faccende si conoscono poco? «Per lo stesso motivo per cui nel cofanetto dei cinquant’anni recupero  Io potrei, scritta per me da Federico Monti Arduini (il Guardiano del faro, ndr), che non riesco a fare live. Ho iniziato quando vendere trecentomila copie era un insuccesso: in piazza e in tv forse è logico, che vogliano ancora Fin che la barca va che ne vendette tre milioni. Per promuovere canzoni diverse bisogna cantare le solite ed è dura, senza appoggi e niente da dare in cambio perché mi produco da me. Cosa che peraltro rifarei: dà libertà, permette di restare in possesso delle tue incisioni. All’estero però non temono le novità, puoi proporle». A Sanremo 89 lei propose Tarantelle: parlava di mala politica, droga, giovani persi, menzogne elettorali… «…E fu esclusa malgrado l’i- ronia. Ovviamente la incisi, visto che sceglievo io cosa fare: ma ebbi problemi a promuoverla, nessuna tv voleva quei temi ». Ha mai pensato di essere stata ghettizzata a partire dal foglietto in cui Tenco, prima di suicidarsi, diede la colpa a chi promuoveva Orietta Berti e non lui? «Nel ’67 ci furono due vittime, a Sanremo: Tenco ed io. Per questo, devo sempre ringraziare la gente. La stampa ignorava vendite e sold out e con cattiveria, dopo ogni votazione a Sanremo o Canzonissima, pubblicava menzogne: soldi persi al casino da mio marito e così via… Ho dovuto far causa più d’una volta, a giornalisti senza rispetto per le persone. E solo di recente il critico di un grande quotidiano mi ha chiesto scusa in tv. Mi hanno molto maltrattata». Aver esordito come Suor Sorriso, in un Paese che fatica ad apprezzare chi canta la fede, c’entrava? «Fu un ricatto dei discografici: vuoi incidere Tu sei quello ( brano che la lanciò vincendo il Disco per l’Estate del 1965, ndr)? Devi cantare Suor Sorriso in italiano perché l’originale francese non venderebbe. Erano canzoni belle, preghiere cantate: che non penso mi abbiano penalizzato, no. Anche perché non le ho mai mischiate col mio repertorio successivo». A fine anni 70 fece successo pure con canzoni per bambini: da madre, che cosa pensa di quelle di oggi?  «Oltre lo “Zecchino” non ne sento. E mi fa effetto vedere bimbi di sei anni cantare Perdere l’amore per l’audience: all’epoca si scriveva per la loro età». Da grande interprete pensa che le tecnologie, in sala d’incisione e non, aiutino davvero i nuovi cantanti?  «Si vede dal vivo chi sa cantare, solo lì senti le stonature naturali. Tutti possono cantare bene, però serve studiare e saper scegliere i brani, senza mai abbassare tonalità perché vanno fatti come sono stati scritti. Io studio due ore al giorno, voglio i fiati giusti, l’orecchio allenato, non fumo, parlo poco, faccio le prove al pomeriggio quando ho un concerto per sentire i musicisti e me stessa. E non sparo i Do nelle prime canzoni: quante volte mi sento dire di essere stata preceduta in una piazza da un giovane che dopo tre brani non aveva più voce… Va usata con gentilezza: la gente capisce chi non ha impostazione». 
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI