sabato 30 marzo 2024
Il 3 aprile 1994 moriva a Parigi l’uomo che rivoluzionò lo studio delle malattie ereditarie e si oppose all'eugenetica. Ne ricordano la figura (e la fede) figlia Anouk e la postulatrice Aude Dugast
Jérôme Lejeune (1926-1994)

Jérôme Lejeune (1926-1994)

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«Si continua a parlare tanto di lui e mi pare che, nonostante questi trent’anni, resti presente». A esprimersi così è Anouk Meyer, prima dei 5 figli del professor Jérôme Lejeune, il quale ha lasciato, fra i suoi familiari, immagini d’una vividezza sorprendente: «Ricordo soprattutto il suo calore umano e il suo modo d’essere, calmo e tranquillizzante. Attorno a lui regnava la pace, grazie a un’autorità interiore. Quando arrivava, ci rallegravamo di parlargli, sentendoci ascoltati. Ci siamo resi conto solo tardi della sua notorietà».

Una fama, quella di Lejeune – morto a Parigi il 3 aprile 1994, a soli 67 anni –, che continua a percorrere nuovi sentieri: «Mi rallegra ed emoziona che così tanti restino fedeli al suo ricordo e che nuove persone s’interessino a lui, senza averlo conosciuto. Si raccolgono sulla sua tomba, chiedendogli aiuto. Una nuova generazione vede in lui un esempio».

Ma certi ricordi, per la primogenita, conservano una punta d’amarezza: «Nonostante avesse già ricevuto il Premio Kennedy, compresi il suo ruolo pubblico dopo i miei 18 anni, quando capì che c’erano pure persone che lo odiavano. All’epoca, registravo elogi tra alcune persone, mentre altre mi voltavano le spalle. Al momento della battaglia sull’aborto cominciai a preoccuparmi per lui. All’università, un giorno, mi ritrovai davanti a una scritta che invocava la sua morte. Tornata a casa ne parlai con lui, che mi disse semplicemente: “Riprendi la bici e scatta una foto”. Ricevevamo a casa anche telefonate di minaccia».

Ma i suoi familiari assaporavano pure il privilegio d’essere testimoni d’una vita interiore profonda: «Ci ha trasmesso la fede con l’esempio e spiegandoci le verità sacre, ma senza vincoli. Sapevamo cosa voleva, ma non percepivamo alcuna pressione. La sera, pregavamo in famiglia e sentivamo che era abitato da una presenza».

Lontano dai boulevard parigini, tutto questo si manifestava ancor più: «Nella fede non era un conformista. Nel fine settimana, eravamo in campagna e non si curava più di tanto del vestire, neppure quando andavamo a Messa. Era molto naturale e non cercava di mostrarsi. In quei giorni faceva un giro da solo di un’ora per recitare il Rosario. Ma ho compreso la sua devozione mariana solo dopo la sua morte. Viveva tutto questo con grande delicatezza, senza dare lezioni».

Un modo d’essere credente che la figlia continua a proiettare al futuro: «L’essenziale, per me, è che possa restare un testimone per l’amore della vita e di coloro che portano una forma di disabilità. Che possa continuare a influenzare le persone nel loro amore per la vita. Il resto importa molto meno».

Un’altra donna, Aude Dugast, ha “incontrato” il professore in modo ben diverso. A posteriori, ma con un’intensità che non ha smesso di crescere. Postulatrice della causa che ha già condotto alla proclamazione come venerabile di Lejeune da parte della Chiesa, nel gennaio 2021, la filosofa ha riunito le «quasi 200mila pagine» scritte dal genetista, continuando a incontrare nuovi testimoni: «Pazienti, famiglie, medici, ricercatori, preti, cardinali. Quasi un popolo intero». Tante le scoperte lungo questo viaggio retrospettivo: «La bussola della sua vita era la verità. E grazie alla fede la verità era per lui pure la via dell’amore. Tutto in lui era molto legato. Ma la sua intelligenza era calamitata dalla verità. Non ha mai rimesso in discussione la fede ricevuta nell’infanzia».
A livello spirituale «il modo d’esercitare le tre virtù teologali era in lui esemplare» tanto da creare ponti continui con il ricercatore al microscopio: «Da grande scienziato, ha sempre mostrato che la scienza e la fede possono procedere assieme. La scienza non può dare conclusioni contrarie a quelle della Rivelazione. L’apparente contraddizione fra le due, ripeteva, significa che la scienza deve ancora andare più in là. In lui, c’era una grande unità interiore fra le due. E la scienza ha decuplicato la sua fede».

Fu questo fuoco intimo a orientare il destino del professore: «L’amore senza condizioni per i suoi pazienti l’ha spinto al dono totale di sé stesso, innanzitutto per comprendere le ragioni scientifiche della loro condizione, ma anche per tentare di curarli, e poi per difenderli. Questa difesa eroica ha manifestato tutta la profondità del suo amore. All’apice della carriera aveva tanto da perdere. Al suo posto altri avrebbero taciuto l’irruzione dell’eugenetica nel mondo medico. Ma davanti alla minaccia per i bambini comprese che era suo dovere prendere la parola. Sapeva bene che non glielo avrebbero perdonato e che avrebbe perso così il Nobel. Ma fra i bambini e gli onori non esitò. Nel 1969 ci fu una svolta eroica nella sua vita con il discorso a San Francisco, quando invitò i migliori genetisti lì presenti a riflettere sulla loro vera missione: non sopprimere i malati ma restare fedeli al giuramento d’Ippocrate. Da allora in poi conobbe un certo isolamento ma pure una sorta di decollo, con inviti nel mondo intero, anche da Parlamenti e tribunali». Insomma, un inizio luminoso laddove molti vedevano solo una caduta.

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