Per migliorare il mondo arginiamo la negatività

I media hanno davvero una notevole parzialità, e non è per il neoliberismo o per l’economia progressista, per Trump, Putin, Zelensky o Netanyahu. È una parzialità per le cattive notizie
May 8, 2025
I media hanno davvero una notevole parzialità, e non è per il neoliberismo o per l’economia progressista, per Trump, Putin, Zelensky o Netanyahu. È una parzialità per le cattive notizie. Un’ampia mole di ricerche accademiche dimostra che le notizie che leggiamo, guardiamo e ascoltiamo tendono ad avere un’influenza negativa su di noi. La percentuale di titoli che esprimono rabbia, paura, disgusto e tristezza solo negli Stati Uniti tra il 2000 e il 2019 è cresciuta notevolmente. E non è andata meglio, e non va meglio, nel resto del mondo dopo la pandemia da Covid 19, l’invasione russa dell’Ucraina, l’assedio della Striscia di Gaza. Qualcosa che va storto è intrinsecamente più degno di nota di qualcosa che va bene.
Ovviamente ci sono ottime ragioni per cui i giornalisti hanno questa tendenza a dare notizie negative: non va dimenticato che una delle funzioni più importanti della stampa è quella di essere il watchdog del potere, in italiano “cane da guardia”: e un cane da guardia abbaia quando qualcosa non va. Ma questo distoglie a volte l’attenzione dei giornalisti dalle storie di cose che semplicemente funzionano e da processi lunghi che durano anni e portano progressi concreti: ad esempio, tra il 2000 e il 2022, il tasso di mortalità infantile a livello globale è diminuito di oltre la metà, il che si traduce in milioni di bambini che sono cresciuti e diventati adulti.Il problema, dunque, qual è? Tutto quell’abbaiare da cane da guardia significa che potremmo ritrovarci con una visione del mondo molto più cupa di quanto non sia in realtà.
E tutti noi da lettori di giornali, frequentatori di social, ascoltatori di podcast abbiamo un ruolo in questo processo, perché abbiamo noi stessi un pregiudizio per le cattive notizie. Uno studio pubblicato su Nature ha calcolato che le persone hanno l’1% di probabilità in meno di cliccare su un titolo, per ogni parola positiva che vi è inserita al suo interno. Naturalmente, i social media, con la loro infallibile capacità di ottimizzare i nostri feed per l’indignazione, hanno solo amplificato questa tendenza. Se pensiamo all’ultima notizia che abbiamo condiviso sui social media o in una chat di gruppo con gli amici, probabilmente era negativa. E parte del motivo per cui siamo così attratti dalle notizie negative è dovuto al fatto che il nostro cervello ha un pregiudizio per le cattive notizie. Non è necessario soffrire di depressione perché questo accada: si tratta del bias della negatività, la tendenza ad attribuire più peso agli eventi e alle informazioni negative rispetto a quelle positive.
Quando si parla della mente umana, “il male è più forte del bene”. È un fatto della natura umana che precede i social media, i media e forse persino la civiltà stessa. Si può dire che sia un prodotto dell’evoluzione. I primi esseri umani, che non erano in grado di identificare e rispondere in modo affidabile alle minacce, probabilmente non hanno resistito a lungo nella savana: il che ha reso questo pregiudizio cognitivo un utile adattamento, anche se ciò ha significato non vedere il mondo per come era realmente. E oggi? La preoccupazione e la negatività non si sono dissolte solo perché il mondo è diventato più sicuro nel suo complesso.
Se vogliamo vedere il mondo per come è realmente, nella sua varietà di bene e male, dobbiamo rieducare il nostro cervello a guardare le cose in modo diverso. E come giornalisti anche a produrre più contenuti che diano conto dei processi a lungo termine che possono incidere su tutta l’umanità, come sostiene il filosofo Max Roser, fondatore del grande sito di dati sul progresso “Our World in Data”: «Bisogna credere che il mondo valga la pena di essere salvato per costruire un movimento che lo migliorerà».

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