Paghi di chi ci dà ragione? Usciamo dalla nostra bolla

A un certo punto delle recenti consultazioni referendarie, stavo quasi per convincermi che il quorum sarebbe stato raggiunto. Sembrava che in molti stessero andando a votare
June 20, 2025
A un certo punto delle recenti consultazioni referendarie, stavo quasi per convincermi che il quorum sarebbe stato raggiunto. Sembrava che in molti stessero andando a votare: post, selfie ai seggi, messaggi di incitamento a “fare il proprio dovere” riempivano i social network. Un entusiasmo contagioso, una mobilitazione diffusa, una partecipazione che pareva quasi travolgente. Poi, però, aprendo i siti di informazione... nulla di fatto: quorum non raggiunto. Ma com’è possibile? Perché quella che sembrava una partecipazione di massa si rivela, nella realtà, un’illusione? La risposta si chiama “camera d’eco”. È un fenomeno ben noto agli studiosi di comunicazione digitale e si manifesta quando, all’interno delle piattaforme social, finiamo per interagire quasi esclusivamente con persone che condividono le nostre stesse idee. Un meccanismo rassicurante, confortevole, ma anche profondamente ingannevole.
Gli algoritmi che regolano ciò che vediamo su Instagram, Facebook o TikTok sono progettati per mantenerci connessi il più a lungo possibile. E per riuscirci ci mostrano contenuti che ci piacciono, che confermano le nostre opinioni, che ci fanno sentire “nel giusto”, dalla parte buona della storia. È il trionfo del confirmation bias, la tendenza psicologica a cercare, interpretare e ricordare le informazioni in modo da confermare ciò che già crediamo. Il risultato? Ci sembra che il mondo sia pieno di persone come noi. Se siamo impegnati su un tema sociale, se votiamo, se difendiamo un certo valore, ci sembrerà che la maggioranza stia facendo lo stesso. E quando qualcuno dissente nei commenti, lo etichettiamo subito come un’eccezione, magari come un troll, uno sprovveduto, uno che non ha capito nulla.
Ma quella che stiamo guardando, in realtà, non è la società: è solo una bolla. Una porzione minuscola e omogenea del mondo, costruita su misura per noi. E il pericolo è duplice: da un lato ci illudiamo che certe battaglie siano già vinte o che certi temi siano ormai condivisi da tutti; dall’altro perdiamo l’abitudine al confronto, alla discussione, persino al dubbio. Questa dinamica genera incomunicabilità. Le posizioni si irrigidiscono, si radicalizzano, il dialogo si spezza. Ci si abitua a parlare solo “ai nostri”, a chi ci assomiglia, a chi la pensa come noi, perdendo la capacità – e forse anche la voglia – di cercare un terreno comune con chi è diverso, con chi dissente, con chi ci mette in discussione.E così, mentre ci sentiamo sempre più forti e uniti dentro la nostra bolla, diventiamo sempre meno efficaci fuori da essa. Ci convinciamo di essere maggioranza quando magari siamo una minoranza vociante.
E quando la realtà ci contraddice ci sentiamo traditi, confusi, disorientati. La buona notizia però è che, una volta riconosciuto il problema, possiamo provare a uscirne. Possiamo cercare attivamente punti di vista diversi, ascoltare invece che solo affermare, chiederci: “E se mi stessi sbagliando?”. Non si tratta di rinunciare alle proprie convinzioni ma di non smettere mai di metterle alla prova. In fondo, vivere in una società complessa – e reale – significa proprio questo: confrontarsi con l’altro, anche quando è scomodo. Soprattutto quando è scomodo. Perché solo nel confronto nasce una comprensione autentica. E solo così la democrazia può funzionare davvero.© riproduzione riservata

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