Viene la Parola. Che dona significato e verità alle parole
L’Uomo non si limita a interpretare il mondo: si scopre già interpretato. Preceduto da uno sguardo e da una Parola che lo conoscono prima ancora che egli possa conoscere sé stesso. La celebrazione del Natale rinnova questo mistero altissimo

«In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». In queste frasi – insieme essenziali e smisurate – l’evangelista Giovanni riassume una tesi che tocca il cuore della condizione umana. Esiste una Parola che precede tutte le altre parole. E che precede ogni altra cosa, visibile e invisibile. Una Parola che non nasce dall’Uomo, ma lo crea e gli dona vita. Una Parola che non si limita a commentare la storia e il mondo, ma li plasma e li fa essere. Una Parola eterna in sé. Il Natale è il momento in cui questa Parola attraversa, misteriosamente, la soglia dell’indicibile ed entra nel tessuto fragile del nostro linguaggio, della nostra storia, del nostro tempo, della nostra vita. Cambia la grammatica del reale. Le parole sono storiche, usurabili, talvolta inquinate. Possono mentire, manipolare, distrarre. La Parola è verità che si dona. La Parola è origine da cui tutto riceve vita. Essa è Principio. «In principio». «Ἐν ἀρχῇ». Una formulazione che evoca l’incipit della Genesi. Non si tratta di un’indicazione cronologica. In Giovanni “principio” è “archè”. È ciò da cui dipende l’”essere” del “tutto”. Giovanni colloca il Logos là dove la filosofia ha indagato per secoli: nel punto sorgivo. Molti hanno immaginato l’archè come sostanza, come energia, come idea. Giovanni lo pronuncia (e lo annuncia) come «verità eterna». E come relazione con essa.
«Egli era in principio presso Dio». “Presso” non indica una vicinanza spaziale, ma un “essere in”. Il fondamento dell’essere non è solitudine. È comunione. È obbedienza. È dialogo. Perpetuo. Nella verità. Da questo dialogo germina il reale. Il “nous” non deve solo decifrare un ordine. Deve rispondere a una chiamata. La verità non è coerenza dialettica. La verità è fedeltà alla struttura costituiva e relazionale dell’essere. L’Uomo non si limita a interpretare il mondo. Si scopre già interpretato. Preceduto da uno sguardo e da una Parola che lo conoscono prima ancora che egli possa conoscere sé stesso. Prima che egli sia. L’Umano e il Divino si toccano. In Gesù le due dimensioni si riconciliano. La divinità appartiene a Gesù più di quanto l’umanità appartenga all’Uomo. L’Uomo riceve l’essere nel tempo. Prima non è. Poi comincia a essere. La sua umanità è da Dio. Ma fuori di Dio. Per creazione. Il Logos, invece, non entra nell’essere come evento temporale. Esiste per generazione eterna. E questa generazione rimane in Dio. Non è un attributo del Padre. Non è una manifestazione transitoria. È Persona. Distinta. Pienamente divina. Autenticamente umana. Nella stessa unica natura del Padre e dello Spirito Santo. È una generazione senza principio e senza fine temporali. Eterno Principio. Da sempre. Per sempre. Il Natale, dunque, non può essere ridotto a una nascita fra le nascite. È molto di più. È l’ingresso nel tempo di Colui che non è mai entrato nell’essere. Perché è l’Essere stesso. Ma: «chi è Costui?» Giovanni, l’Evangelista, ha dato la risposta «per tutti i tempi, per ogni uomo, per ogni cultura, per i secoli eterni». Gesù è il Logos. Colui che è presso Dio. Che è da principio. Che da principio è Dio. Non un grande maestro fra i grandi maestri. Non un profeta fra i profeti. Non un’idea tra le idee. Non una metafora morale tra le prospettive morali. L’evangelista sceglie deliberatamente un termine carico della più alta tradizione filosofica: “Λόγος”. Parola, discorso. Ma anche ragione, principio, misura. Gli Stoici vi riconoscevano il principio razionale che pervade il cosmo. Eraclito ne intuiva la funzione unificante del divenire. Con Giovanni il salto è, invece, vertiginoso. Il Logos non è più soltanto la trama razionale del mondo. È Persona, appunto. La Persona in cui il tutto è. Qui si colloca la svolta cristiana. Il Logos non è più un concetto o un discorso. Il Logos è un Tu. E se il principio del reale è un Tu, allora il nostro parlare non è mai neutro. È sempre risposta. Ogni parola, in ultima analisi, è un modo di dire “sì” o “no” al Logos da cui tutto proviene.
«Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste». Siamo nel cuore della creazione. Siamo dentro la nascita delle cose. Il Verbo non è una creatura, eminente tra le altre creature, nell’ordine generale del Cosmo. Egli è il mediatore della creazione. Ogni teoria che lo sposti all’interno del Creato cade come un’impalcatura sbagliata. Se tutto è stato fatto per mezzo di Lui, allora Egli è il Principio imprincipiato della creazione. L’Artefice. Se la creazione è stata fatta per mezzo del Verbo, allora «ogni cosa creata porta l’impronta della Sapienza divina». La realtà non sopporta il caso. Non tollera il caos come vocazione. Quando vediamo disordine, incongruenza, fatalità, osserviamo, inevitabilmente, la ferita morale e spirituale dell’Uomo che abita male ciò che gli è dato. Il creato porta l’impronta del Logos. Anche il nostro parlare, dunque. Quando è vero, riconosce. Quando è falso, distorce. La parola umana è atto essenziale del perenne mistero della creazione. Essa è strumento per custodire l’ordine sapiente delle cose. O per violentarlo. Perché le parole senza Logos – senza un principio che le giudica e le misura – diventano (simmetricamente) strumenti di potere tanto più pericolosi quanto più si presentano come neutri. Senza la Parola che restituisce alle parole la loro vocazione alla verità, il significato (e ogni significante) è consegnato al gioco delle maggioranze, alle tendenze emotive, alle architetture tecniche che governano la visibilità esteriore e superficiale di ogni discorso. Senza la Parola, la semantica si sgancia dall’ontologia. Le parole non rimandano più a una verità che le precede. Ma alla rete delle pratiche e dei poteri che le utilizzano. Non ci si chiede più che cosa significhino davvero “uomo”, “donna”, “famiglia”, “giustizia”, “libertà”. Bensì quale definizione risulti più funzionale, più accettabile, più utile. Forme, legami, istituzioni si dissolvono in flussi continuamente rinegoziati. Il linguaggio subisce lo stesso destino. I concetti si fanno reversibili. I termini vengono riformattati. Le parole diventano contenitori vuoti che ogni gruppo riempie secondo il proprio interesse simbolico. È sempre successo. Sempre succederà. Ogni epoca ha avuto le sue parole logore e inutili. La nostra sembra conoscerne un’iperinflazione senza precedenti. Il mondo digitale e mediatico ha trasformato il linguaggio in flusso continuo. Le parole non nascono più dal silenzio, ma da altre parole. Non indicano, rimandano. Non rivelano, ammassano. Viviamo in un universo discorsivo saturo, in cui il commento precede l’esperienza. In cui l’opinione si sostituisce alla conoscenza. In cui il dire si consuma all’interno di una circolarità autoreferenziale. Parole che rimandano a parole. Che misurano il loro valore in base alla reazione che suscitano. Non alla verità che dicono. La conseguenza antropologica è sottile e tremenda. La parola cessa di essere luogo di alleanza e diventa esercizio di autoaffermazione. Il relativismo diventa “ethos”. L’indeterminatezza viene celebrata come virtù. Il linguaggio smette di riflettere la struttura del mondo e diventa cartografia dei desideri. In questo senso, l’umanità contemporanea è stremata dal discorso. O meglio: dai discorsi. Saturata di messaggi. E, proprio per questo, affamata della vera Parola. Una Parola non sottoposta alla consunzione del tempo. Una Parola non prodotta dalla (né per la) ricerca del consenso. Una Parola non manipolabile. Una Parola che non resta principio metafisico, ma si dona alla Storia. Una Parola che fa la Storia. Una Parola che è verità eterna.
«In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini». Senza la Parola-Verità-Eterna, le altre parole sono prive del principio della vita. Sono suoni, segni, strumenti; potentissimi, talvolta devastanti, ma incapaci di rispondere alla domanda ultima: «che cosa è vero?». Senza la Parola, le altre parole galleggiano. Con la Parola, ogni parola viene chiamata a una disciplina interiore. Con la Parola, ogni parola riceve energia, senso e significato. Con la Parola, ogni parola si compie. La Parola lenisce, risana, conforta, dona speranza, conferisce salvezza. La Parola ricompone il legame tra l’Uomo e il suo Principio.
«La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta». In una società che idolatra l’indeterminato, chi osa pronunciare parole che desiderano dire qualcosa di stabile sull’Uomo è accusato di esclusione. Chi richiama a un Logos oggettivo viene sospettato di autoritarismo. Così, mentre la lingua proclama tolleranza, si restringe il campo di ciò che è dicibile senza sanzione sociale. «A causa di una parola venne la morte». Non è una metafora: è la descrizione di ciò che accade ogni volta che la parola umana si separa dalla Parola che l’ha generata. Quando il linguaggio smette di custodire la verità dell’altro, diventa strumento di possesso, di manipolazione, di dominio. Le grandi tragedie del Novecento – totalitarismi, genocidi, ideologie disumane – sono state precedute e accompagnate da una devastazione semantica. Obbedire alla Parola significa rinunciare a utilizzare il linguaggio come arma. O come merce. Non si dice per vincere, ma per servire. Non si dice per occupare spazio simbolico, ma per far esistere l’altro. È questa la libertà più alta del dire. Partecipi di un Logos che crea, salva, rialza. Nel Verbo l’Uomo diviene razionale. Fuori del Verbo diviene illogico. La Storia lo conferma con una testimonianza severa. Le opere dell’Uomo – anche quando sembrano sagge – rivelano spesso un’interiore stoltezza nell’uso che se ne fa. E talvolta nel fine per cui sono costruite. Non è un insulto all’Umano; è una diagnosi storico-orale. Il linguaggio senza verità è rumore seduttivo. Le parole senza Parola sono disordine. L’annuncio giovanneo appare, quindi, scandaloso. Dalle parole viene la morte. Dalla Parola viene la vita. E questa luce, pur contrastata, «non è stata vinta dalle tenebre».
La celebrazione del Natale rinnova questo mistero altissimo. Che si conferma ogni volta che l’Uomo – ogni uomo – si lascia raggiungere e ri-abitare dalla Parola. Ricomincia il Principio. La Sapienza torna a dimorare nel linguaggio. E il linguaggio, finalmente, torna ad albergare nell’Uomo. Nel grembo perenne di Maria. Nel grembo della Chiesa, se si manterrà fedele. Nel silenzio in cui la Parola può risuonare. Il silenzio al quale ogni buon Armonauta è chiamato. Il silenzio della Notte Santa.
È il Natale. È Natale. Auguri.
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