Tennis e calcio, pianeti a distanza incolmabile
Non sono qui per fare paragoni, né accostamenti dal vago sapore populista fra la disfatta del calcio azzurro (al netto della clamorosa sconfitta in Norvegia e della successiva pallida vittoria con la Moldova, mi riferisco a ormai quindici anni di vuoto, confusione, disorientamento, valori – economici e morali – in picchiata, con l’unica eccezione dell’Europeo del 2020 che resta, per l’appunto, un’eccezione) e la bellezza della finale del torneo maschile al Roland Garros, una di quelle partite che si vedono, se si è fortunati, ogni dieci anni e che fanno la storia dello sport. Il paragone, dicevo, è impossibile. Si tratta di “sport” in entrambi i casi, certo, ma siamo su due pianeti talmente diversi che ormai anche i rispettivi abitanti dell’uno e dell’altro pianeta capiscono di non potersi capire più. Da una parte l’incedere stanco di novanta minuti abbastanza desolanti, tanto quelli in Norvegia quanto quelli in Italia, un’anestesia pressoché totale di emozioni, pathos, adrenalina; dall’altra 329 minuti di tensione agonistica assoluta, senza mai un calo di continuità. Da un lato cinque gol, fra fatti e subiti (e sono pure tanti, vista la calcistica possibilità dello 0-0) a interrompere uno stato catatonico, dall’altra il computo finale (a favore di Sinner, peraltro) di 193 a 192 punti, spesso entusiasmanti. Da una parte le solite (e sempre meno sopportabili) manfrine, dall’altra due ragazzi di poco più di vent’anni che, nei fatti, si auto-arbitrano i punti più importanti di una delle partite più importanti delle rispettive carriere, correggendo – a favore dell’avversario – errori arbitrali. E quando, in un momento importantissimo, arriva una chiamata sbagliata ma non correggibile, Sinner sbotta, per (forse) tre secondi, e poi si rimette a giocare, come se nulla fosse successo: per una cosa del genere, sul pianeta calcio, si sarebbero fatte ore di trasmissioni televisive con opinionisti ululanti e protagonisti con le carni straziate dal dolore e dagli alibi. Da una parte sconfitte e vittorie già chiare a metà dell’incontro, il resto del tempo passato in attesa del fischio finale, dall’altra una partita che ciascuno dei due ha vinto, poi perso, poi vinto o perso ancora, e che è terminata soltanto perché il regolamento l’ha imposto, mentre qualsiasi appassionato avrebbe desiderato vedere quella coppa tagliata in due e distribuita metà a testa. Da una parte un Ct che annuncia il suo esonero senza neanche la presenza di un dirigente federale al suo fianco e va in panchina, la partita successiva, da licenziato, dall’altra due staff che interagiscono con i loro atleti con un cenno, uno sguardo, un segnale e, soprattutto, con un rispettivo orgoglio infinito, festeggiando o meno la vittoria finale. Insomma, il paragone non volevo farlo, ma alla fine l’ho fatto. E il problema è dover spiegare che i protagonisti di questi due sport appartengono allo stesso genere umano, fatto che da una parte preoccupa, dall’altra è fonte di speranza nel futuro. Non fate il mio errore, non fate paragoni, però due considerazioni concedetemele: la finale del Roland Garros è premessa e promessa di almeno quindici anni di uno spettacolo leggendario, mentre il calcio italiano – dopo quindici anni impantanato nelle proprie sabbie mobili – se non cambia, profondamente e in frettissima, è destinato all’estinzione. © riproduzione riservata
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