domenica 27 gennaio 2013
Col primo figlio in braccio ho scoperto che tutti i soldati di tutte le guerre sono stati, un tempo, figli, fra le braccia di una madre. Ma in fondo questo sguardo è speculare a un altro, imparato da bambina.Nel fienile della vecchia casa delle Dolomiti in cui passavamo l'estate un giorno, rovistando fra arcolai e rastrelli coperti di ragnatele, avevo trovato un elmo: un rugginoso elmo della Grande Guerra, sanguinosamente combattuta fra queste montagne. Delle trincee delle Tofane avevo sentito i vecchi raccontare, e conoscevo il grande sacrario dei caduti a Pocol, una torre alta e cupa che custodisce i resti di migliaia di morti. Ma ciò che mi colpì, di quell'elmo, fu una scritta, graffiata sopra con un temperino: «Mamma, se posso torno». Era la promessa di un soldato - qualcuno di quella casa, a me sconosciuto, forse già morto. Quella scritta mi folgorò: perché perfino io, bambina di dieci anni, in quelle quattro parole intuivo la guerra - che cos'è, davvero. Capivo la infinita nostalgia dei ragazzi lassù nelle trincee fra le cime, nel gelo e nel sangue. Ragazzi che, quando taceva il fuoco, guardavano giù, verso la valle, e il paese; cercavano un tetto, il tetto di casa, dove la madre aspettava. «Mamma, se posso torno». Quattro parole graffiate su un elmo, come una ferita.
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