“Warrior”, storie di clan (e violenza)
mercoledì 24 luglio 2019
All'indomani del lancio dell'iniziativa dell'Aiart di un'indagine per dire «basta alla violenza in tv», non è facile parlare di Warrior, la serie a metà fra action e denuncia sociale sulla condizione degli immigrati cinesi in America a fine Ottocento in onda il lunedì alle 21,15 su Sky Atlantic. L'Associazione cittadini mediali, parla della violenza in tv come di «un problema molto avvertito dai telespettatori e che preoccupa l'intera comunità». Il presidente Giovanni Baggio spiega che non si tratta di una provocazione bensì «di promuovere una pubblica e seria iniziativa diretta a evidenziare il malessere dei teleutenti e a chiedere alle istituzioni competenti di svolgere la dovuta vigilanza». Warrior si basa molto sulla violenza. Basti pensare che a scrivere il soggetto per una serie tv ambientata nella Chinatown di San Francisco alla fine del XIX secolo fu addirittura Bruce Lee, campione di arti marziali, anche se nei suoi film il kung fu era più teatrale che altro, un po' come i cazzotti di Bud Spencer. Warrior, ovviamente, va ben oltre, raccontando la storia di Ah Sahm, un immigrato cinese che al suo arrivo a San Francisco riesce a farsi ingaggiare da una delle famiglie criminali più potenti della città dimostrandosi un portento delle arti marziali. Nel pieno delle guerre tra Tong (le società segrete cinesi che in quegli anni controllavano il territorio), Ah Sahm ritrova la sorella Mai Ling, scoprendo però che lavora per un clan rivale. Tra sanguinosi duelli corpo a corpo e intrighi, il giovane cinese si farà strada in un ambiente pericoloso e imprevedibile. Una storia complessa, sullo sfondo di colori cupi e atmosfere ottocentesche. Ma i temi attorno ai quali si sviluppa l'intreccio vanno oltre la violenza, comprendendo argomenti sempre attuali come la corruzione, la xenofobia e l'intolleranza. Insomma la violenza, pur presente in dosi massicce, non è fine a se stessa. Ed è già un passo avanti, una discriminante. Resta semmai la compiacenza nel soffermarsi in alcune sequenze su atti particolarmente violenti, sgozzamenti compresi. Sono casi come questi che rendono valida l'iniziativa dell'Aiart anche se va sempre accompagnata da una formazione e da una crescita del telespettatore.
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