mercoledì 9 marzo 2011
Per nascere scrittore, bisogna imparare ad amare la rinuncia, la sofferenza, le umiliazioni. Soprattutto bisogna imparare a vivere appartato.

Anche a me giungono spesso testi inediti, che grondano speranze destinate a rivelarsi illusioni. Infatti, soprattutto per quanto riguarda la poesia, molti sono convinti che sia solo un'improvvisazione simile a una folgore, mentre in verità essa è come un distillare miele da una candida e casta cera, per usare un'immagine di un poeta autentico come Clemente Rebora. Molti credono che scrivere sia come indossare un cappotto e non strappare qualcosa dall'anima con fatica, impegno, tormento. A tutti gli aspiranti scrittori - e sono una legione, come ben sanno le case editrici - dedico questa nota di un autore provocatorio come è stato l'americano Henry Miller, morto in California nel 1980.
Ma questa considerazione, desunta dalla sua opera autobiografica Nexus (1960), vale un po' per ogni professione e per una vera formazione personale. Quattro sono le tappe di questo ideale itinerario dello spirito. La rinuncia, innanzitutto, alle distrazioni, alle banalità, alla superficialità, alle illusioni. C'è poi la sofferenza che comporta la fatica dell'addestramento, dell'ascesi, della ricerca. Si parano poi davanti a noi le umiliazioni: lo scacco, l'insuccesso sono spesso in agguato ed è facile lasciarsi tentare dallo sconforto, accasciandosi ai bordi della strada della vita. Infine, ecco la tappa decisiva: il paziente e silenzioso appartarsi nella riflessione, lontano dal rumore, dalle chiacchiere, dalla mondanità, dalla luce sfacciata dei riflettori. Al pittore El Greco chiesero un giorno perché egli dipingesse sempre in una camera in penombra. Rispose: «Se sapeste quale luce sfolgorante è dentro di me!».
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