venerdì 9 settembre 2011
Coloro che vincono, in qualunque modo vincano, mai non ne riportano vergogna.

Vae victis!, avrebbe gridato Brenno, capo dei Galli, ai Romani impauriti dopo la sua devastazione di Roma nel 390 a. C., stando almeno alla Storia di Roma di Tito Livio. Che i vinti debbano sempre temere è anche convinzione di quello spirito freddo e pragmatico che è il nostro Machiavelli, che oggi ho voluto presentare in una delle sue frasi lapidarie e realistiche, tratta dalle sue Istorie Fiorentine (1520-25). Il vincitore ha sempre ragione, potremmo sintetizzare, prescindendo purtroppo da ogni considerazione morale sui mezzi, le forme e il merito stesso della vittoria. L'amoralità del vincere è una convinzione da secoli diffusa, per cui ci si premura subito di aggregarsi alla folla e al carro del vincitore, spesso senza pudore. È, questa, una sorta di legge nella politica, nella guerra, nella carriera e così via, in tutte le occasioni dalle quali emergono nettamente vincitori e vinti.
Ciò che vorrei, però, mettere in luce nella frase di Machiavelli è quel «non riportarne mai vergogna». L'arroganza del vincitore lo rende spudorato, gli cancella il rimorso, gli amputa dal cervello il senso critico. Quella della perdita della vergogna è una delle più truci esperienze dei nostri giorni, un vizio che non è più appannaggio dei vincitori, ma di tutti. Scherzando, lo scrittore russo Anton Cechov parlava di «un bassotto che camminava per la strada e provava vergogna di avere le gambe storte». Ora, invece, le gambe storte - soprattutto le storture dello spirito - vengono ostentate e diventano materia di spettacoli televisivi. Come, invece, è profondo l'asserto di un altro russo, il pensatore Vladimir S. Solov'ëv: «Provo vergogna, dunque esisto».
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