giovedì 22 ottobre 2020

Di tutti i guai che ho combinato in vita mia, il più grosso è stato probabilmente quando ho distrutto la macchina di mio padre. Era una grande Opel di un impossibile color celestino, io avevo 19 anni e la guidavo come se fosse stata una Ferrari, peccato che tenesse la strada come un “Ape”. Finì con l’auto che carambolava tra un enorme palo della luce e i due muraglioni che fasciano un tratto urbano dell’Aurelia antica, a Roma, con decollo finale e atterraggio sul tetto dopo un pregevole tonneau e mezzo. Tutto sommato mi andò di lusso, tre costole rotte e una decina di punti in faccia. La misura di cosa avevo combinato la ebbi solo quando, accompagnato da un vicino di casa, un paio d’ore dopo tornai sul posto dell’incidente, dove la polizia stava facendo ancora i rilievi. Quando mi avvicinai al relitto un agente, guardando prima la mia faccia incerottata e rossa di mercurocromo, e poi il rottame, mi chiese se ero uscito da là dentro e, al mio assenso, espresse con grande franchezza che ero stato molto fortunato, per così dire. Mia madre invece, che era voluta venire pure lei e che da quando avevo messo piede a casa non aveva smesso un attimo di minacciare rappresaglie apocalittiche, si zittì di colpo e non parlò più per tutto il giorno (trenta giorni dopo, il 15 ottobre, mi fece trovare a pranzo una piccola crostata con una candelina e, al mio sguardo interrogativo, mi disse seria: «Oggi compi un mese»). Mio padre, rientrando a casa la sera con in mano tutto ciò che restava dell’Opel, l’autoradio, non disse niente, mi chiese solamente se al mattino dopo lo potevo accompagnare in ufficio con la 500.

Da quel giorno smisi di guidare come se ogni volta fosse un gran premio, anche se non nascondo che, quando mi veniva voglia di correre, su due o quattro ruote, lo facevo senza riguardo per nessuno, nemmeno per le figlie. E se Giulia, la grande, spesso mi incitava ad andare ancora più forte (con lei seduta dietro ho segnato il record di velocità su due ruote con passeggero), Camilla, la piccola, è sempre stata più assennata e prudente, e un paio di volte – depositata in orario ad appuntamenti dopo essere partiti, per colpa sua, in ritardo – mi ha salutato con un secco «tu sei pazzo».

Motori a parte, dalle zuffe all’asilo all’essere dato per disperso per tre giorni in montagna, ho sempre avuto un talento naturale per cacciarmi nei guai. E alla vigilia di sposarmi uno dei miei incubi ricorrenti era che un mio figlio potesse darmi solo un’unghia delle preoccupazioni che io avevo dato ai miei. Comunque, consapevole di questo talento, nella mia vita non è mai mancata un’assicurazione contro gli infortuni, non si sa mai. Peccato che invece non abbia mai pensato che si possa restare invalidi anche per malattia, come sono ora con la Sla. Davvero peccato.

(40-Avvenire.it/rubriche/Slalom)​

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: