venerdì 2 aprile 2004
Si ha un bell'avere una salute di ferro: finisce sempre che si arrugginisce. La vecchiaia sta sulla testa come un peso più gravoso di quello delle rupi dell'Etna. L'accostamento di due frasi apparentemente così diverse, ed effettivamente distanti a livello cronologico, nasce da una mia visita a un anziano professore milanese che mi si è affezionato seguendomi alla televisione, e che non mi ha dato tregua affinché l'andassi a trovare. Purtroppo anch'io mi sono lasciato scappare quei complimenti che tutti fanno a un vecchio non del tutto malandato: «Che bella cera! Lei ha una salute di ferro"», e così via. Il professore mi ha risposto citandomi due battute, frutto del suo passato di insegnante. Le propongo oggi ai miei lettori. La prima è del poeta francese Jacques Prévert (1900-1977) e ci ricorda che anche la salute più solida prima o poi s'incrina. La seconda è ben più antica perché appartiene alla tragedia dell'Ercole furente del greco Euripide (V sec. a.C.). La vecchiaia è vista come un peso opprimente, comparabile a quello dell'Etna, considerato nell'antichità come il monte più imponente. L'invito è, allora, al realismo che non riguarda solo gli anziani. Ogni essere umano, anche nel fiore della gioventù, deve essere consapevole che il ferro s'arrugginisce presto e che i pesi pronti a piombarci addosso sono molteplici. È la scoperta del nostro limite creaturale: siamo «come l'erba che germoglia al mattino: fiorisce, germoglia e alla sera è falciata e dissecca» (Salmo 90, 5-6). Ogni illusione, ogni rimozione, ogni banalizzazione prima o poi deve scontrarsi con la realtà della malattia e della morte.
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