giovedì 4 agosto 2011
Provava soltanto una delusione immensa, perché doveva andare verso Dio a mani vuote, senza aver fatto nulla. Gli pareva che sarebbe stato così facile essere un santo. Si sentiva come qualcuno che per pochi secondi avesse perduto l'appuntamento con la felicità.

Sacerdote pauroso e ubriacone, braccato dai rivoluzionari messicani anticlericali, il protagonista del famoso romanzo Il potere e la gloria (1940) dello scrittore inglese Graham Greene alla fine acquista una sua grandezza e un suo eroismo proprio partendo dal suo fallimento. Le parole che abbiamo citato ne sono una testimonianza limpida che vale non solo per un prete, ma anche per un fedele: si giunge alla meta finale a mani vuote, consapevoli di aver attraversato tante situazioni nelle quali si sarebbe potuto dare, creare, costruire, e ormai sconsolatamente ci si rassegna a riconoscere di aver perduto l'appuntamento con la felicità.
Nel 1998 lo scrittore cuneese Nuto Revelli m'inviò un suo libro che aveva per protagonista un sacerdote che aveva vissuto la Resistenza e il suo ministero con ardore, ma che aveva avuto come suggello della sua esistenza un tramonto triste, solitario e amaro. Aveva intitolato quel libro Il prete giusto. C'era una pagina sottolineata dallo stesso autore, contenente alcune parole di questo ecclesiastico, don Raimondo Viale. È ad esse che lascio il commento conclusivo al testo di Greene, ricordando che oggi il calendario reca la memoria di san Giovanni Maria Vianney, il semplice e luminoso curato d'Ars, un prete “riuscito”. «Ci sono preti che si comportano come altoparlanti di Gesù Cristo non solo con le parole ma anche coi fatti. Altri invece hanno scelto la vita quieta, il tran tran: nessun nemico. Io dico: se un prete non ha nemici, non è un prete. Gesù crea una rottura tale che lo chiamano “segno di contraddizione”».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: