sabato 16 settembre 2017
«Non c'è posto nel sacerdozio e nella vita religiosa per chi fa del male ai giovani». Era il 2003, Giovanni Paolo II parlava ai vescovi americani convocati in Vaticano nel pieno della bufera dello scandalo esploso oltre oceano per gli abusi sui minori compiuti da preti e religiosi. Non erano i primi casi svelati, e non sarebbero stati gli ultimi. Ma è a quella data che si fa risalire, quasi per convenzione, l'inizio della rivoluzione che avrebbe portato all'offensiva della Chiesa contro questo scandalo intollerabile, che riguarda e indigna il mondo ma ferisce persino di più chi crede in Cristo. Una lunga, faticosa e dolorosa marcia verso la purificazione, fatta di molte tappe l'ultima delle quali, per il momento, sarà segnata la prossima settimana dalla riunione della Commissione per la tutela dei minori voluta da papa Francesco, che alla fine del suo primo triennio di lavoro deciderà come andare avanti, e con quali strumenti. Perché quello che è assolutamente certo è che la lotta non si ferma.
Una lunga marcia, si diceva, iniziata in realtà ben prima di quel 2003, se già nel 1988, da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, l'allora cardinale Ratzinger in una serie di lettere sollecitava pareri in merito a una riforma del diritto canonico volto a pulire i responsabili di «gravissimi e aberranti delitti». A preparare così il terreno per quel De delictis gravioribus del 2001, redatto per dare corso al motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela di papa Wojtyla che, proprio per evitare sottovalutazioni, insabbiamenti e tentazioni di omertà a livello locale, assegna la competenza in materia di pedofilia alla Congregazione per la dottrina della fede.
Divenuto Pontefice, Benedetto XVI ha portato questa lotta al livello di «tolleranza zero», assolutamente determinato a dare una risposta inflessibile allo scandalo, schierandosi sempre dalla parte delle vittime. E poco, anzi nulla, gli interessa il fatto che le statistiche dimostrino come il fenomeno, nonostante il clamore mediatico, sia molto al di sotto rispetto ad altre realtà e istituzioni; perché, come avrebbe detto in diverse occasioni, anche nei molti incontri voluti con le vittime, «anche un solo caso sarebbe troppo». Un'autentica rivoluzione. Ma d'altra parte, dirà, in gioco c'è la Chiesa, che non si tutela nascondendo la sporcizia sotto il tappeto, ma facendo pulizia. «Non posso che condividere – scrisse nella lettera ai cattolici irlandesi – lo sgomento e il senso di tradimento che molti di voi hanno sperimentato al venire a conoscenza di questi atti peccaminosi e criminali e del modo in cui le autorità della Chiesa in Irlanda li hanno affrontati...».
Un vero e proprio “punto di non ritorno”, sul quale Francesco ha innestato le ulteriori iniziative varate per rendere ancora più incisiva l'azione di contrasto. Con sempre lo stesso obiettivo, e con lo stesso “sentire”: «Come può un prete, al servizio di Cristo e della sua Chiesa, arrivare a causare tanto male? Come può aver consacrato la sua vita per condurre i bambini a Dio, e finire invece per divorarli in quello che ho chiamato “un sacrificio diabolico”, che distrugge sia la vittima sia la vita della Chiesa? – ha scritto nella prefazione del libro La perdono padre di Daniel Pittet, ex sacerdote svizzero e vittima, da ragazzo, di un prete pedofilo –. Si tratta di una mostruosità assoluta, di un orrendo peccato, radicalmente contrario a tutto ciò che Cristo ci insegna. La nostra Chiesa... deve prendersi cura e proteggere con affetto particolare i più deboli e gli indifesi. Abbiamo dichiarato che è nostro dovere far prova di severità estrema con i sacerdoti che tradiscono la loro missione, e con la loro gerarchia, vescovi o cardinali, che li proteggesse, come già è successo in passato».
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