
L’uno-due della Corte costituzionale sull’autonomia differenziata ha chiuso la strada del regionalismo divisivo e autoreferenziale e ha aperto la via del regionalismo cooperativo e solidale. Fermo restando che per valutazioni più complete bisognerà attendere il deposito della sentenza sull’inammissibilità del quesito referendario, quest’ultima decisione ha ulteriormente rafforzato i già perentori argomenti del pronunciamento dello scorso novembre sul ricorso delle Regioni. Talché risultano veramente fuori luogo certe richieste leghiste di andare avanti senza perdere tempo perché si tratterebbe soltanto di apportare qualche aggiustamento al testo. In realtà il quesito è stato respinto perché la legge Calderoli di fatto non c’è più. Questa è la sostanza della questione. «Quel che rimane è poco più di un perno», ha sottolineato il neo-presidente della Corte costituzionale, Giuseppe Amoroso. E un autorevole presidente emerito della Consulta, Giovanni Maria Flick, in un’intervista a questo giornale ha parlato esplicitamente di «guscio vuoto».
Non bastano interventi formali. Il Parlamento dovrebbe avere il coraggio di riprendere in mano tutta la questione dell’autonomia, rileggendo le norme della controversa riforma del 2001 alla luce delle sentenze della Consulta che hanno meglio inquadrato quelle norme nel contesto dei princìpi fondamentali della Carta. Non tutto potrà essere fatto con legge ordinaria. Ci sono infatti aspetti il cui aggiornamento (o completamento) esige una revisione costituzionale.
Servirebbe, per esempio, una riflessione sull’elenco degli ambiti in cui si possono realizzare le «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia». Innanzitutto la Consulta ha chiarito – ed è un chiarimento dirimente – che si possono trasferire funzioni, non intere materie. Ma ha rilevato anche che per alcune di queste funzioni «l’onere di giustificare la devoluzione alla luce del principio di sussidiarietà diventa (...) particolarmente gravoso e complesso», così che eventuali leggi di differenziazione «potranno essere sottoposte a uno scrutinio stretto di legittimità costituzionale». Un discorso analogo vale per le materie in cui agiscono stringenti vincoli internazionali. La Corte non chiude del tutto la porta, ma la severità delle sue argomentazioni dovrebbe indurre il Parlamento a una verifica rigorosa.
Un altro tema di importanza essenziale riguarda la mancanza di una sede istituzionale di confronto al massimo livello, che si chiami Senato delle Regioni o in altro modo. Già nell’assetto attuale è una lacuna molto pesante, e lo dimostra il fatto che la Consulta sia chiamata ripetutamente in causa per sbrogliare il contenzioso in cui sono coinvolte direttamente o indirettamente le Regioni. Far convergere i rappresentanti di queste ultime in un organismo politico di rilievo costituzionale è la via maestra per scongiurare interpretazioni scomposte dell’autonomia e per costruire un regionalismo virtuoso e realmente efficace. Ci si dimentica sempre che la legge di riforma del 2001 si chiudeva con una singolare norma transitoria in cui si dava per scontata la riforma del bicameralismo. Che però non è mai arrivata, e ne vediamo le conseguenze anche in altri campi. A tutto danno dello stesso Parlamento.
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