giovedì 1 giugno 2017
Siamo abituati a pensare che la parola "cattolico", dal greco katholikos, abbia il significato di "universale", vale a dire "inclusivo", "che racchiude", ma più precisamente il vero senso del termine (dalla sua etimologia greca kata + holos, "attraverso il tutto") sta per "estroverso", "in espansione". Quello cattolico è in poche parole un modello aperto, non un sistema chiuso come a volte è stato inteso nei secoli passati. A ricordarcelo è il gesuita Walter Ong, da tutti considerato il vero erede di Marshall McLuhan. Nato a Kansas City nel 1912 e morto a Saint Louis nel 2003, si formò nell'università di questa città e ad Harvard: la sua tesi sul ritmo della poesia di Gerard Manley Hopkins (altro famoso letterato gesuita) venne supervisionata dal massmediologo. Ma oltre alla letteratura inglese e ai cultural studies, egli si è dedicato soprattutto alla storia della comunicazione: è a lui che si deve un'altra famosa definizione, quella di "seconda oralità elettronica" riferita al nostro tempo.
Per Ong l'era della televisione e dei computer coincide con la società aperta, dopo secoli di chiusura e individualismo dovuti al dominio della scrittura e soprattutto della stampa. È finita a suo parere l'epoca dei modelli chiusi che hanno dominato i cinque secoli passati, cominciata con Gutenberg e affinata da Cartesio e Kant, e che presentava il sapere, ma in fondo la realtà stessa, come qualcosa di già confezionato. L'irruzione prima del mezzo televisivo e poi del computer ha portato al recupero della spontaneità, della partecipazione e della solidarietà proprie dell'oralità. È nel libro Interfacce della parola (pubblicato nel 1977 e in Italia tradotto dal Mulino nell'89) che in particolare Ong sviluppa le sue considerazioni. Lo studioso è ben cosciente che senza la scrittura non vi sarebbe la cultura come l'intendiamo oggi: il superamento dell'analfabetismo e poi l'organizzazione delle informazioni e lo stesso sviluppo della scienza sarebbero impensabili. Ma al tempo stesso è convinto che la scrittura e la stampa abbiano «oscurato la natura della parola e del pensiero stesso perché hanno allontanato la parola fondamentalmente partecipe dal suo ambiente naturale, il suono, e l'hanno assimilata a un segno su una superficie, dove una parola reale non può in alcun modo esistere». I nuovi media elettronici consentono di recuperare non solo quell'immediatezza e spontaneità propria della cultura orale, ma anche quei valori comunitari radicati nelle civiltà anteriori all'invenzione della scrittura. Molti, a partire da Platone, hanno segnalato anche la perdita della memoria come conseguenza di questa invenzione ed egli evidenzia la grande spaccatura tra la parola parlata, da cui discende la cultura dell'oralità, che fu una cultura viva, reale, aggregatrice, e la parola scritta, articolatasi in fasi successive dalla scrittura a mano all'invenzione di Gutenberg, espressione di una cultura separatrice, individualistica, artificiale. E non a caso qui è il cattolico che parla: civiltà del libro e Riforma protestante sono state storicamente, intrinsecamente legate. Il suo è un invito ad un uso dei media che porti a recuperare la funzione immediata ed educativa della parola.
Non si deve però ritenere che Ong esprima una visione ingenuamente ottimistica. Egli sa bene che tv e computer sono uno strumento dal doppio volto: «Il male dilaga come sempre e i nostri mass media più aperti si ostinano a trasformare in spettacolo delle tragedie reali, ma la spinta verso l'apertura appare nel suo insieme ugualmente vantaggiosa e sembra rappresentare una evoluzione della coscienza». I media elettronici di per sé non ci rendono uomini e donne migliori. Ci danno un potere senza scopo e noi dobbiamo fornire la direzione di marcia: «Proprio perché il computer è tanto potente ma mai umano, oggi l'elemento umano è più importante di quanto sia mai stato in passato». Specialmente in un mondo computerizzato dobbiamo pensare agli scopi più ampi dell'umanità: è questa la lezione che ci lascia.
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