
Il profeta Isaia, uomo dell’VIII secolo a.C., non visse in tempi particolarmente felici. Dopo aver distrutto il regno di Israele, il potente impero assiro si mette a devastare il regno di Giuda, dove solo la capitale, Gerusalemme, sfugge al saccheggio. Quel che resta del popolo di Dio crede di trovare soccorso nell’alleanza egiziana, che si rivelerà ben presto deludente. In quel difficile contesto, il profeta fa una sorprendente promessa: «Eppure il Signore aspetta con fiducia per farvi grazia, per questo sorge per avere pietà di voi, perché un Dio giusto è il Signore; beati coloro che sperano in lui» (Is 30,18).
Che la felicità stia nella salvezza, nel soccorso, nella sicurezza, questo possiamo capirlo, ma può trovarsi nella speranza? La speranza non è forse un’attesa, con tutto ciò che questa implica in termini di incertezza, di impazienza, di frustrazione? Questo è probabilmente vero quando si ripone la speranza nei soccorsi umani. Sperare in Dio è altro: è una fiducia che non viene riposta nel futuro, ma nell’eternità. Il dono di Dio è una promessa, ma in questa promessa egli già offre sé stesso, ed è sempre presente a noi: la speranza è più comunione che attesa, ed è per questo che non porta solo una felicità a venire, ma una beatitudine per l’oggi, fragile e al tempo stesso incrollabile.
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