
Non è mai piacevole essere colti in fallo. Anche quando non c’è nessuno lì a vedere, la scoperta di essere fallibili, imperfetti, anzi davvero deludenti, è per forza dolorosa: urta l’immagine che abbiamo di noi stessi, o, più esattamente, quell’immagine di perfezione che inseguiamo fin dall’infanzia, convinti di dover essere perfetti per infine meritare di essere amati. Una corsa estenuante in cui i nostri peccati sono altrettante sconfitte, che si tratti di peccati umilianti che si ripetono o di difetti più inattesi che vengono alla luce. La felicità dipenderebbe dunque dalla nostra capacità di evitare queste cadute dall’alto del nostro piedistallo, sempre dolorose?
Non è questo il parere del salmista, che propone una visione altra della felicità: «Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato» (Sal 32,1). Secondo questa beatitudine, la felicità non risiede nella perfezione finalmente raggiunta, ma nella gioia del perdono: il perdono di Dio, un perdono vero che non viene a umiliarci ma, al contrario, a rivelarci, al cuore stesso della nostra debolezza, quanto siamo amati. Beato colui che attraverso il perdono scopre quanto sia vana e faticosa questa corsa alla perfezione, poiché, da sempre e senza condizioni, egli è amato così come è.
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