«Sarà l'anno della voce». Aspettate però a gioire
venerdì 12 febbraio 2021

Se vi dicessi che il 2021 sarà l'anno della voce, alcuni di voi si metterebbero a ridere. Sono almeno dieci anni, infatti, che qualcuno scrive che l'anno successivo o quello iniziato da poco sarà l'anno della voce. Da quando nel 2011 Apple mise l'assistente vocale Siri nei suoi cellulari, la voce è tornata più volte al centro della scena digitale. Nel 2014 Amazon annunciò Alexa e nel 2016 Google il suo assistente vocale. Nel 2017 scoprimmo che sempre più persone facevano ricerche vocali, mentre il 2018 fu l'anno del boom degli assistenti vocali per la casa. Il 2019 doveva essere l'anno dei podcast, cioè «dei contenuti audio resi disponibili via Internet, ascoltabili tramite app e piattaforme, che possono essere archiviati e ascoltati anche offline» (sotto il cappello «podcast» oggi convivono contenuti molto diversi: programmi radio, audio di inchieste tv, monologhi, talk show, lezioni, conferenze, tutorial, inchieste eccetera). Qualcosa però, almeno da noi, non è andato com'era previsto e così l'anno dei podcast è diventato il 2020.
In questi giorni, si parla molto di Clubhouse, il social dove si comunica solo con la voce in stanze tematiche (per ora è disponibile solo per utenti Apple). E si torna a parlare della rivincita del suono dopo anni nei quali ha dominato l'immagine. Il fenomeno Clubhouse è indubbiamente interessante anche se l'app ha problemi di privacy e di moderazione (ci sono stanze dedicate al Vangelo e altre dove si bestemmia, ci sono spazi di confronto alto e stanze dedicate all'odio razziale e politico). Non è facile prevedere se avrà un futuro e in quale direzione si evolverà. Ma se Twitter è già partita con Spaces, che ricalca il modello Clubhouse (il quale, è bene ricordarlo, è nato nell'aprile 2020 e non qualche giorno fa) e anche Facebook sta per aprire chat vocali vuol dire che questa «moda» ha un fondamento solido. Quindi, in qualche modo, il 2021 sarà davvero l'anno della voce.
Tutti noi, cresciuti ascoltando la radio, siamo innamorati della voce come strumento comunicativo. E sappiamo benissimo quanto sia affascinante e potente l'uso che se ne può fare. Eppure, il «boom della voce» non è solo una buona notizia. Perché? Perché dietro al successo, prima dei messaggi vocali (che usano tantissimo gli under 30), poi degli assistenti come Alexa e ora di ClubHouse, c'è un dato chiaro: usiamo e useremo sempre di più la voce non solo perché è uno strumento meraviglioso, ma anche perché è più facile parlare che scrivere ed è più facile (e divertente e appagante) ordinare a un assistente vocale di cambiarci canale della tv o di alzare una tapparella che farlo con le mani.
Anche leggere, per alcuni, è diventata una fatica (soprattutto da quando passiamo la giornata a guardare schermi del pc o del cellulare). Così, in alcuni Paesi stanno andando forte anche gli audiolibri. Solo che nessun audiolibro riesce a farci entrare nelle pieghe di un romanzo o di un saggio quanto leggerlo. Così come il parlare richiede una scelta delle parole importante ma non sempre così profonda e attenta quanto quella che dobbiamo compiere quando scriviamo.
Ben venga, quindi, l'anno della voce. Ma teniamoci stretta e difendiamo la parola scritta. Perché dietro a questo «boom», come abbiamo accennato, c'è anche la nostra pigrizia, come singoli e come società. Quella che già oggi, sempre più spesso, ci fa leggere i testi saltando come canguri tra le parole. Ma così facendo (come ha spiegato bene Maryanne Wolf nel saggio «Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale»), rischiamo di disimparare a leggere il mondo in profondità, lasciando che le parole lette vibrino e poi si depositino in noi, prima di dare frutto come nuovi pensieri. Non è un caso che, al momento, ogni chat vocale di Clubhouse si dissolva quando termina. «Verba volant, scripta manent».

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