giovedì 30 novembre 2006
La grazia di saper morire, di essere degni di morire, il dono di chiudere cantando il lungo giorno «poiché i miei occhi hanno visto la luce delle genti». La grazia di poter dire di fronte al mondo: le valigie sono pronte. Arrivederci, figlioli. Di contro, ecco invece questa civiltà di morte, questa morte a battaglioni, una morte industrializzata. Morte mangiata nei cibi stessi che mangi; morte salita con te sull'aereo; morte che con te viaggia sulla stessa auto, divertita a spingerti lei stessa al folle sorpasso" Parole forti e necessarie, queste di padre Turoldo. Le abbiamo rievocate al termine di questo mese che la devozione popolare riserva alla memoria dei defunti. Purtroppo appena si parla di «bella morte» ai nostri giorni si pensa subito all'eutanasia, un atto estrinseco e affidato a tecniche distruttive, con un groviglio di interrogativi e di drammi. Certo, sappiamo che anche l'accanimento terapeutico ha condotto a perdere il vero senso della «bella morte». Essa, infatti, non significa che il morire non sia drammatico, ma in quell'evento supremo fa brillare un aspetto ormai desueto. Alla morte, infatti, non ci si vuole mai pensare né preparare. La si considera un incidente, e tale spesso è attraverso la «morte industrializzata» nelle guerre, nella frenesia dell'azione, nell'egoismo degli interessi, nel disprezzo dei valori. Ecco, invece, la morte è bella quando viene considerata in antecedenza, è guardata negli occhi, e a essa ci si avvicina
con la valigia pronta, colma del bene e dell'amore che si è lasciato alle spalle. La lacerazione dell'agonia non è, allora, solo disperazione da abbreviare in qualsiasi modo, ma ha in sé un seme di speranza, di attesa.
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