sabato 4 giugno 2011
Si passa la prima metà della vita a ricordare senza capire, e l'altra metà a capire senza ricordare.

Ho ancora buona memoria, nonostante l'avanzare degli anni. Tuttavia, devo confessare che in giovinezza la mia mente riusciva a conservare un bagaglio enorme di informazioni, anche non necessarie. Forse non le capivo con la profondità che lo scorrere del tempo mi ha dato. È un po' quello che accade alle menti giovani, che possono immagazzinare dati, come avviene nei computer, senza però elaborarli più di tanto. Parte da questa rilevazione Antoine Rivarol, brillante e ironico scrittore francese del Settecento, del quale ho oggi proposto una delle osservazioni che egli incastonava nei suoi "almanacchi" di ritratti di personaggi. La situazione della giovane generazione attuale, con l'avvento dell'informatica, è appunto quella di avere a disposizione una valanga di dati, di "memorie", come si usa dire nel linguaggio "virtuale".
Una massa che, però, non è ordinata in un progetto sensato ed è, quindi, arduo elaborarla, comprenderla, trasformarla in uno strumento di conoscenza. Ma all'antipodo, ecco la vecchiaia che incarna un altro modello antitetico, quello del capire, sì, ma senza ricordare, disperdendo in tal modo la capacità di sintesi e di conservazione. Memoria e intelligenza, allora, non procedono necessariamente insieme e, così, ci troviamo sempre un po' monchi e incompleti. Eppure ricordare e comprendere è, senz'altro, una meta ardua, ma non impossibile, e questo avviene attraverso la selezione dei dati, il rigore del metodo. Purtroppo pare che di questo la scuola e la stessa cultura contemporanea non si preoccupino. La vera conoscenza, infatti, unisce al dato appreso lo scavo per comprenderlo, a differenza di quanto oggi accade: «Un'infarinatura di tutto, una conoscenza di niente», per dirla con il celebre scrittore inglese Charles Dickens.
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