Quell'abbraccio per Bryant ci immunizzi dall'egoismo
mercoledì 26 febbraio 2020
Ventimila persone, due giorni fa, si sono rinchiuse nello Staples Center di Lor Angeles per partecipare a una struggente cerimonia in ricordo di Kobe Bryant e di sua figlia Gianna. "A Celebration of Life" il titolo scelto per questa vera liturgia laica, un inno alla vita dunque. Nulla è stato lasciato al caso, a partire dalla data: il tragico incidente in elicottero risale a oltre un mese fa, ma lunedì era il 24.02, ovvero una data che simbolicamente richiamava i due numeri di maglia indossati da Bryant nella sua straordinaria carriera e da Gianna in una carriera che era ancora tutta lì, da succedere. Guardare questo incredibile assembramento di persone, ascoltare gli interventi in un silenzio irreale, in un luogo così affollato, ordinato, rispettoso, trafitto da un'emozione tangibile, mi ha fatto venire in mente, per contrasto, quello che sta succedendo nel nostro Paese. Le nostre grandi città del nord svuotate, le scuole chiuse, un dilagare di voci, di contraddizioni, di confusione. Un nemico invisibile che sta alimentando quel pensiero individuale, quell'essere pronti a mettere in salvo se stessi e incolpare qualcun altro che già aveva portato questo Paese sull'orlo di una crisi di nervi nella quale oggi rischiamo di precipitare definitivamente.
Le grandi paure o, peggio, le tragedie, di solito mettono in moto spinte verso l'unità, verso il desiderio di reagire collettivamente a qualcosa che ha la capacità di colpire, molto democraticamente, chiunque. Un lutto o un virus non guardano ai confini territoriali, al colore della pelle o al conto in banca. L'inimmaginabile scomparsa di un'icona dello sport, per esempio, ha portato il mondo intero, non solo quello del basket o dello sport, a dimenticare ogni divisione. Proprio Michael Jordan, uno che in passato qualche problema con Kobe l'aveva avuto, fra le lacrime ha detto: «All'inizio uno come Bryant era un fastidio, poi, riconoscendo la sua infinita passione, ho imparato a voler diventare il suo miglior fratello maggiore immaginabile». Si chiama brotherhood nel mondo anglosassone, noi traduciamo con il temine fratellanza, ma è qualcosa di più. Non è solo un legame, è un sentimento. È il desiderio di sentirsi parte di qualcosa di più grande di sé come singoli individui. Di solito, le grandi paure, o le tragedie, restituiscono a questo sentimento forza e unità di intenti. Era questo perfino il meccanismo del teatro greco, che le tragedie le portava sul palcoscenico non solo per catarsi, ma per generare senso di comunità. Sono passate poche ore dall'erompere di questa psicosi che sta attraversando il Paese e che si sta diffondendo con meccanismi, questi sì, davvero virali. I segnali non sono confortanti, non per la diffusione del coronavirus e per i rischi che tutto ciò comporta. Almeno, non solo per questo. I segnali non sono confortanti per la reazioni fuori controllo, per i tentativi di sciacallaggio, per la diffusione di notizie false, per il poco rispetto delle linee guida indicate, per la confusione e la frammentazione delle stesse, per una sorta di libera interpretazione di un contesto che, prima che essere considerato come un problema, dovrebbe essere proprio definito così: il contesto, ovvero qualcosa che non ci possiamo scegliere, con cui dobbiamo aver a che fare e che richiede uno sforzo collettivo e condiviso. È difficile, oggi, fare previsioni, chissà cosa sarà anche la situazione la prossima settimana. Tuttavia, se non previsioni, sarebbe bello esprimere almeno un desiderio: far sì che tutto ciò non sia inutile e che, oltre a sviluppare gli anticorpi a un virus nuovo, quando le scuole riapriranno, le metropolitane, i cinema, i musei, i teatri, gli stadi torneranno a riempirsi, si possa essere diventati un po' immuni alle tendenze sociopatiche, all'egoismo dilagante, alla volontà di mettere in salvo solo se stessi anche se passeggeri a bordo di una nave intera che sta naufragando.
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