Quanto vale Graziano per il suk del pallone?
mercoledì 30 aprile 2025
Una divisa tutta bianca, nessun marchio, nessuno sponsor. Soltanto un nastro nero, a lutto, all’altezza del cuore e una scritta: “Nessun valore, nessun colore”. È successo in reazione a una tragedia immensa, la scomparsa improvvisa – mentre era a Bergamo, in ritiro con la squadra – del fisioterapista del Lecce Graziano Fiorita, a soli 47 anni. Un dolore inaudito, difficile da comprendere per tutti, e in particolare per i calciatori giallorossi: chiunque abbia frequentato uno spogliatoio sa perfettamente come il fisioterapista non sia solo un professionista che si occupa di muscoli, ma una specie di fratello maggiore, un confidente, un vero e proprio punto di riferimento. E chi ha frequentato uno spogliatoio può facilmente immaginare lo sconforto, il disorientamento, lo smarrimento di chi, dentro a quello spogliatoio, ci sta ogni giorno. La Lega Calcio ha testardamente subordinato tutte queste umane riflessioni a quello che ha definito essere la necessaria «regolarità del campionato», imponendo il disputarsi, domenica scorsa, della gara di Bergamo. Il Lecce ha risposto con un comunicato durissimo: «Emerge una gerarchia della morte in base al blasone della società colpita, o peggio ancora, in considerazione del ruolo rivestito da chi viene a mancare». Con la scelta, potente e – almeno a mia memoria – senza precedenti, il Lecce in campo ci è andato, ma con una maglia che è diventata un tazebao. Quel “nessun valore” scritto sul petto è lo squarcio di un velo che ormai appare sempre più fragile agli occhi di tanti, soprattutto di tanti tifosi che sarebbero coloro a cui lo spettacolo del calcio dovrebbe essere destinato. La scomparsa di un uomo che da ventisei anni aveva dedicato la vita al suo lavoro, al suo club, al calcio non è stata motivo sufficiente per fermare la macchina del business sportivo. Graziano Fiorita se n’è andato tragicamente in pochi minuti, ha lasciato moglie, quattro figli e il gruppo di persone con cui quotidianamente divideva il suo tempo e il suo lavoro e che, per una volta, non avrebbero voluto sentirsi ripetere che “the show must go on”. Il fatto, al di là delle umane (o disumane) considerazioni, è che c’è un convitato di pietra a cui tutti sembrano essersi rassegnati: quei calendari che sono talmente tanto fitti da non lasciare più uno spillo di spazio per fermarsi di fronte a eventi tragici, luttuosi, catastrofali o per qualsiasi altra situazione che richieda – vorrei dire che imponga – una sospensione. La vergogna di calendari nazionali e internazionali che non permettono più di concedere il rispetto che situazioni straordinarie meriterebbero (non ho citato, per decenza, le polemiche relative allo spostamento di alcune gare in relazione ai funerali di papa Francesco) evidentemente non ha più soluzioni. Ne resta una soltanto: che il calcio lo fermino i calciatori, gli unici oggettivamente indispensabili allo spettacolo. Solo quando si fermeranno loro, rifiutandosi di scendere in campo, allora il tema si affronterà sul serio. Al netto di alcuni altri tentativi è successo una sola volta: il “famoso” sciopero del 17 marzo 1996, quasi trenta anni fa, per motivi di carattere economico. Ecco, forse l’Associazione Italiana Calciatori dovrebbe tornare a far sentire oggi la sua voce, contro l’ignominia di calendari che non lasciano più spazio né alla pietà né alla salute loro e dei loro tifosi. © riproduzione riservata
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