giovedì 21 aprile 2016
Milano, aprile – Alle cinque di sera nella grande casa di riposo, sedute su delle panchine lungo il corridoio, le ricoverate attendono che si faccia l'ora di cena. Sull'orologio a muro la lancetta avanza con estenuante lentezza. Che silenzio: i rumori da fuori in questi antichi locali arrivano ovattati. Dalle cucine, un vago odore di minestra di verdure si mescola a quello del detersivo dei pavimenti, accuratamente puliti. La signora cui passo accanto mi ferma gentilmente, con un cenno della mano. Ha i capelli candidi ben curati, e sul viso le tracce, sotto gli oltre ottant'anni, di una antica bellezza. È ben vestita, di un'eleganza di altri tempi, e i suoi occhi azzurri sono chiari come il cielo dell'alba. «Scusi, signora – mi chiede gentilmente – lei sa quando verrà il mio papà, a prendermi?». È così serena l'espressione della donna: come di una bambina che sia certa che suo padre non mancherà, davanti a scuola, quando suonerà la campana dell'ultima ora. Interdetta, io non so cosa rispondere. Non voglio spezzare il sogno della sconosciuta. Dico allora: «Verrà certamente suo padre, signora, forse è soltanto un po' in ritardo».Istintivamente allungo lo sguardo verso il fondo dell'ampio corridoio, quasi credessi anche io che quel padre possa arrivare. Sciocca, mi dico, quell'uomo, se fosse vivo, avrebbe 120 anni. Poi, non so esattamente perché, ma mi siedo accanto alla donna. Mi dice di chiamarsi Giuseppina. Quanti anni ha, ora non lo ricorda: fa un gesto vago con la mano, come se la cosa non fosse poi così importante. Faceva la sarta, mi dice, a brevi frasi interrotte e più volte ripetute: «Vestivo le signore eleganti di Milano, sa». A tratti è qui, presente, a momenti altrove, persa in un indefinito orizzonte.Forse è la tenerezza di Dio, mi dico, in così tarda età a velare come di nebbia lo sguardo: così come si dice ai bambini di chiudere gli occhi, di fronte a qualcosa che può fare loro paura.Le lancette dell'orologio a muro paiono sempre più lente, come se il tempo, fiume impigrito in una lanca, qui si stesse fermando. Vedo che la signora sorveglia il fondo del corridoio, ora di nuovo attenta. «Quando verrà il mio papà a prendermi?», ripete, quieta, ostinata, con i suoi occhi chiari da bambina.Verrà, vorrei dirle, verrà suo padre, signora. Lui, infine, arriva sempre. Siamo tutti così autonomi e padroni di noi, ma poi negli ultimissimi anni, anche se tutto attorno svanisce come in una nebbia, resta, tenace, un pensiero: qualcuno ci verrà a prendere. È scritto, in qualche luogo, che un Padre debba venire: benigno, pietoso, a prenderci per mano, e a riportarci, infine, a casa.
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