domenica 10 aprile 2011
Io sono come quelle piccole candele che si piegano al calore; non ho la rigidezza dei grossi ceri che però sono di legno: vuoti e falsi. Io sono un debole, ma sono vero.

Così si confessa davanti al suo vescovo don Pacifico, il parroco protagonista di Campane a Sangiocondo, una delle opere di quella straordinaria (e del tutto ignorata) scrittrice che fu la romana Dolores Prato (1892-1983). Forse pochi sanno che quelle splendide candele che si ergono ritte sui solenni altari delle grandi chiese, come quelle più tozze e basse ma perfette che sono collocate sugli altari moderni, sono sostanzialmente un «falso»: si tratta, infatti, di oggetti di plastica e, in passato, di legno che hanno al loro interno un meccanismo che spinge una piccola candela vera progressivamente verso l'alto, mentre si consuma.
Bella è, quindi, la metafora del parroco di Sangiocondo: egli è genuino e sincero come un cero autentico. Proprio per questo si piega, si consuma malamente secondo i colpi di vento, gocciola rivelando la sua natura. «Sono debole, ma vero», dichiara con semplicità e pochi di noi possono ripetere questa confessione perché spesso abbiamo rivestito una corazza di protezione e indossato persino una maschera che celi i nostri limiti. È quell'ipocrisia che Cristo sapeva subito snidare; è l'orgoglio raffinato che ci avvolge il cuore e l'anima; è quell'«apparire» a tutti i costi che diventa la legge che sostituisce l'impegno per «essere». Solo chi è come don Pacifico sa alla fine vedere meglio la realtà umana. Il vescovo, ad esempio, gli dice: «Nel cinema, nelle osterie, la gente non fa che divertirsi!». E lui: «Non si diverte, si stordisce; è diverso"».
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