giovedì 28 febbraio 2019
Nel mondo degli affetti, c'è una parola che fa la differenza: scoprirla, comprenderla e viverla è qualcosa che può rendere la vita migliore. Sto parlando della gratitudine: di quell'emozione cioè che ci permette di prestare attenzione a tutte le cose buone che incontriamo ogni giorno, di apprezzarle, di valorizzarle; ci permette di comprendere che sono un dono e di non darle per scontate. In una vita spesso occupata a tenere il conto delle contrarietà e delle difficoltà, la gratitudine è un'emozione preziosa, che può cambiare in modo sostanziale la percezione delle nostre giornate e il nostro rapporto con gli altri. Ma la gratitudine, soprattutto quella per le persone che ci sono vicino, è frutto di vera maturità personale e spesso non bastano da soli gli anni e l'esperienza a renderci capaci di ringraziare. La gratitudine richiede un pensiero educativo, perché per essere grati è necessario uscire dalla logica contabile dei diritti, che ci porta a leggere ogni nostro bisogno o desiderio come un credito, perennemente aperto nei confronti della vita e degli altri. Purtroppo oggi, senza esserne consapevoli, stiamo costruendo una generazione che non conosce più la gratitudine né la gioia profonda che questa comporta.
Il nostro rapporto con i bambini è tutto improntato alla soddisfazione dei loro bisogni: prevederli e prevenirli ci appare ormai come un dovere e non siamo capaci di tollerare in loro nessuna delusione; deludere i nostri figli ci fa sentire infatti genitori incapaci e ci fa temere di perdere il loro amore. Dunque oggi i bambini ci commissionano con precisione ogni cosa che li riguarda: giochi, cibo, abbigliamento, vacanze, attività, sono per quanto possibile una risposta ai loro desideri. Ma proprio quegli stessi figli ai quali diamo tutto, appaiono non solo sempre più scontenti, ma anche sempre più insofferenti alla relazione con noi e poco disposti a corrispondere la nostra attenzione e la nostra sollecitudine per loro. In logica continuità con quanto abbiamo loro insegnato, si aspettano di ricevere senza bisogno di essere grati.
Sono molti i genitori che esprimono delusione e sofferenza per questi figli che con disinvoltura continuano a prendere e a pretendere, vivendo come dovuto tutto ciò che ricevono ben al di là del tempo fisiologico dell'infanzia e dell'adolescenza. Anche oltre le soglie dell'età adulta, che dovrebbe inaugurare la stagione della gratitudine, i figli rimangono purtroppo concentrati solo su di sé e indisponibili. Il fatto è che, rispondendo ai loro bisogni e desideri come se fossero diritti, li abbiamo privati della possibilità di capire attraverso l'esperienza sia il significato che il piacere del dono dato e ricevuto.
Nel ricevere ciò che ci è dovuto, infatti, non c'è altro che un pareggio dei conti; manca la sorpresa del dono, e manca anche la gioia che si prova quando qualcuno è stato capace di capire cosa desideriamo o cosa ci è necessario. Ciò che ci fa dire grazie all'altro è proprio questo: il suo pensiero, il suo tempo e la sua cura non sono un dovere, ma un libero segno di amore; chi ci fa un dono riconosce e segna concretamente il valore che abbiamo per lui. Lo stesso vale, e ancora di più, per chi ci fa dono del suo tempo, della sua gentilezza, della sua pazienza, della sua cura; neppure questo è dovuto, nemmeno con i figli. Così come non lo è mai il perdono, che è un dono incommensurabile perché concede alle relazioni una vita sempre nuova. Per aiutare i nostri figli, è necessario che noi per primi, come adulti, impariamo di nuovo a ringraziare: per ciò che abbiamo ricevuto nel passato, ma anche per ciò che continuamente riceviamo nel presente. Niente ci è "dovuto": non la vita, non la salute, non l'amicizia; per il cristiano, neppure il dono della fede, che è tra tutti il dono più grande. E anche di questo, con la ricchezza incommensurabile che comporta, dobbiamo tornare davvero a ringraziare.
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