sabato 23 novembre 2019
Il celebre filosofo Karl Popper, pochi mesi prima di morire, nel 1994, espresse la sua preoccupazione per le derive antieducative e disgreganti il tessuto sociale della televisione, chiedendosi come mai non esistesse nessun tipo di filtro d'accesso alla programmazione di un mezzo così invasivo e "potente". La cosa fu liquidata come una "provocazione", ma la domanda di Popper era molto di più: perché, questo l'interrogativo di fondo, mentre per svolgere ogni professione è indispensabile seguire un iter di formazione e ottenere una abilitazione, per fare televisione ciò non è necessario, nonostante i pericoli intrinseci a un mezzo per il quale è impossibile invocare la neutralità rispetto ai contenuti che diffonde? E perché, allora, non istituire una sorta di "patentino" anche per questo, da rendere obbligatorio non solo per chi va in video, ma anche per gli stessi proprietari delle emittenti?
Oggi, venticinque anni dopo, sappiano bene che non solo le cose non sono cambiate ma, anzi, sono notevolmente peggiorate. Perché, oltre a corrodersi anche ambiti, come il giornalismo "classico", in cui abbiamo assistito a un crollo della deontologia, s'è aperta quella voragine della non-regolamentazione rappresentata da internet, rispetto alla quale, ancora una volta, nessuno può chiamarsi fuori dicendo: "E io che c'entro, io fornisco solo un servizio...". A ricordare che certi atteggiamenti autoassolutori non siano più sopportabili né plausibili è stato qualche giorno fa Papa Francesco, che in un lungo (e bellissimo) discorso sul dovere di proteggere i più piccoli dai pericoli del mondo digitale e arrivare a «bandire dalla faccia della terra ogni tipo di abuso sui minori», ha chiamato in causa la responsabilità dei colossi della rete invitandoli in maniera pressante a farsi carico insieme alle istituzioni e alle famiglie di quella protezione. «Sebbene i genitori siano i primi responsabili della formazione dei loro figli – ha detto – bisogna prendere atto che, nonostante la buona volontà, oggi è sempre più difficile per loro controllare l'uso che i figli fanno degli strumenti elettronici», per cui «l'industria deve collaborare con i genitori nella loro responsabilità educativa». Le aziende infatti non sono «mere fornitrici di piattaforme tecnologiche», ma devono appunto farsi carico della questione della sicurezza visto che «il potenziale degli strumenti digitali è enorme» e lo sono pure «le eventuali conseguenze negative del loro abuso nel campo del traffico di esseri umani, nell'organizzazione del terrorismo, nella diffusione dell'odio e dell'estremismo, nella manipolazione dell'informazione e – dobbiamo insistere – anche nell'ambito dell'abuso sui minori».
Per questo, dunque, «senza il pieno coinvolgimento delle società del settore, senza una piena consapevolezza delle ricadute morali e sociali della loro gestione e del loro funzionamento, non sarà possibile garantire la sicurezza dei minori nel contesto digitale... Esse sono non solo tenute a rispettare le leggi, ma anche a preoccuparsi delle direzioni in cui si muove lo sviluppo tecnologico e sociale da loro promosso e provocato, perché tale sviluppo precede di fatto le stesse leggi che cercano di regolarlo». Sempre avendo presente che «la crescita sicura e sana della gioventù è lo scopo nobile per cui vale la pena di lavorare e vale molto di più che il mero profitto economico ottenuto anche a rischio di fare il male dei giovani». Davanti a Francesco, mentre pronunciava queste parole, c'erano anche i rappresentanti dei giganti del web, Google, Apple, Amazon e Microsoft. La speranza è che, tra venticinque anni, nessuno dica che quella di Francesco «era solo una provocazione».
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