martedì 10 febbraio 2004
PROBLEMA. Parola usata per dire che non c'è: non c'è problema. Variante euforica: no problem. Tipica di esistenze assillate da troppi problemi. Sono più di sette mesi che è morto lo scrittore Giuseppe Pontiggia: sento la sua mancanza di amico, coi suoi scritti, coi suoi biglietti, le sue riflessioni, la sua bontà e anche la
sua serena e divertita ironia. Sfoglio una sua raccolta (Le sabbie immobili) e mi cade sotto gli occhi questa garbata denuncia di un vezzo diffuso. Quel no problem banalissimo e ostentato è, in realtà, sulle labbra di persone che non hanno problemi solo perché non se li pongono o li hanno affogati nella vacuità e nella superficialità della loro esistenza. In realtà a livello segreto - subliminale, come si dice enfaticamente - sono tanti i problemi che queste persone covano e che esorcizzano col rosario dei loro no problem. È talmente vero tutto questo che le stesse persone sono spesso colpite da stress e da depressione. Ma vorrei, sullo spunto di Pontiggia, fare un'altra considerazione. Usiamo tante parole "nere", ossia prive di reale contenuto. Sarebbero parole da rottamare perché servono solo a colmare di rumore il silenzio della nostra comunicazione attuale. Si parla tanto e si dice poco: che cosa si riesce a spremere di utile e sensato da uno dei tanti talk show (altra espressione da buttare) televisivi? Il poeta francese ottocentesco Stéphane Mallarmé suggeriva di «dare un senso più puro alle parole della tribù». Sì, noi siamo come una tribù che urla motti e slogan: dobbiamo purificare il nostro linguaggio e riempirlo di parole sane, vive, sensate. Non dimentichiamo che s. Giovanni chiama Cristo la Parola, il Verbo per eccellenza.
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