domenica 13 luglio 2003
Gesù Cristo non è venuto per dirci delle frivolezze, non ha fatto il viaggio di venire sulla terra per raccontarci amenità e frottole. Non si ha il tempo per divertirsi. Non a speso i trentatré anni della sua vita terrestre per raccontarci fandonie" Non ci ha dato parole morte da chiudere in piccole scatole. Ci ha detto parole vive, destinate a nutrire. Io sono la via, la verità e la vita. È Charles Péguy, lo scrittore francese, morto nella battaglia della Marna del 1914 a 41 anni, a disegnarci in modo efficace il volto autentico di Cristo in questa pagina del suo poema Il portico del mistero della seconda virtù
(1911). Abbiamo spesso evocato questo autore che fu condotto a Cristo, quasi per mano, proprio dalla "seconda virtù" teologale, la speranza. Fu questa "bambina", come la chiamava lui, a guidarlo alla cattedrale di Chartres quando l'angoscia per la grave malattia del suo piccolo figlio e una passione lacerante e disordinata lo stavano per gettare nel baratro della disperazione.

Da allora in lui nacque, forte e chiara, la certezza che la parola di Gesù fosse sostanza di vita, luce che illumina, fuoco che brucia. Una parola che non può essere tenuta in scatolette come si fa coi cibi o con le conserve, ma una realtà viva e operante. Certo, noi cristiani non consideriamo le parole del vangelo, che anche questa domenica ascolteremo, come se fossero "frivolezze, amenità, frottole o fandonie". Tuttavia c'è per noi sempre in agguato il rischio che siano "parole morte" che rinchiudiamo nel nostro perbenismo, nel nostro egoismo, nella comodità di un cristianesimo del tutto impallidito e stantio. Dobbiamo invece ritornare a farne cibo, come aveva fatto Ezechiele col libro della Parola di Dio (3, 1-3).
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