martedì 14 giugno 2011
Entri, e sei solo. In apparenza, almeno. Perché c'è Dio. Da dove venga non so: forse lo portavi già con te quando sei entrato. Oppure lo ha suscitato la solitudine.

Da giovane venne rinchiuso in una casa di correzione; poi si arruolò nella Legione straniera dalla quale, però, disertò per rifugiarsi negli ambienti più depravati di Parigi, vivendo di espedienti e finendo non di rado in carcere. Da questi bassifondi egli, comunque, estrasse la materia delle sue opere che generarono scandalo, ma nello stesso tempo furono per lui come una riabilitazione, perché nelle miserie che egli descriveva si intravedeva un'ansia di innocenza e la letteratura diventava una sorta di riscatto e di trasfigurazione delle esperienze più sordide. Stiamo parlando dello scrittore francese Jean Genet (1910-1986) e dal suo Funambolo abbiamo tratto una suggestiva nota spirituale autobiografica.
Il soggetto è impegnativo, Dio. Eppure si presenta in un orizzonte comune e quotidiano, quello della solitudine. Chiudi la porta e sei lì, solo, coi soliti mobili, con la polvere, l'abbandono e il silenzio. Ecco, però, la scoperta: Dio ti ha preceduto ed è davanti a te; ti attendeva. Certo, ci può essere il sospetto che sia la solitudine stessa a crearlo. Ma egli è presente e infrange la desolazione dell'isolamento. Ricordiamo che anche Cristo suggeriva di entrare nella propria camera, venendo dalla piazza, e di chiudere la porta, per incontrare Dio nel segreto (Matteo 6, 5-6). Il grande filosofo e credente francese, Pascal, era convinto che buona parte delle nostre sventure e della nostra miseria nasce dall'incapacità di rimanere da soli nella nostra stanza almeno un'ora al giorno. «Spiegami, Amore, quello che io non so spiegarmi», pregava la scrittrice Ingeborg Bachmann, quand'era «sola, senza avere né donare nessun affetto». Ieri scrivevamo che la solitudine è il campo da gioco di Satana, ma è anche uno dei crocevia principali per incontrare Dio e il proprio io intimo e profondo.
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