Io mi chiamo Nino e ho dieci anni. Vivo in più di mille periferie, ho parenti neri, bianchi e gialli e ogni giorno subisco soverchierie. La mia storia è un grido su bocche mute, una di quelle storie taciute. Io mi chiamo Nino e tu devi ascoltarmi: è da quando esisto che su di me alzano la voce e anche le mani. Il male che fa dentro tu non sai quant'è" La mia storia è un grido di sofferenza, in mezzo a troppa indifferenza"
Forse molti si stupiranno che oggi abbia citato alcuni versi di Ali e radici di un cantautore come Eros Ramazzotti, a prima vista così lontano dal mio orizzonte culturale (e musicale). Eppure devo dire che il suo Nino, uno dei tanti ragazzi dispersi che anche in questa domenica incontreremo nelle strade delle nostre città, ha un volto e dice parole che nessuno può ignorare. C'è, infatti, un coro di grida mute che escono dalle labbra di tante creature umiliate: sono le «storie taciute» fatte di violenza, sfruttamento, degrado, storie che si consumano «in mezzo a troppa indifferenza».
Nel testo del cantautore romano c'è, però, un'altra frase che cerca di infrangere la nostra indifferenza, che ci impedisce di guardare dall'altra parte e che ci vieta di ricorrere al solito alibi dell'intervento della società, della politica, dell'assistenza, del volontariato, pur di proseguire comodamente il nostro passeggio domenicale. Dice, infatti, Eros: «Non possiamo chiudere gli occhi, guarda lì quanto dolore, non possiamo chiudere gli occhi, dillo forte a chi non vuole vedere, il risveglio delle coscienze più non tarderà». Ecco, anche se ci turba la festa, Nino dev'essere ascoltato e la speranza è che la sua voce faccia fremere, almeno per un momento, i giovani che ascoltano in cuffia Ramazzotti e colpisca noi adulti inclini a considerare come un fastidio queste presenze di ragazzi sbandati, da affidare soltanto alla polizia o ai servizi sociali. Cristo ripete anche oggi: «Tutto ciò che avete fatto a uno solo di questi piccoli, l'avete fatto a me».
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