Ma non basta una vita a comprendere le alte parole scritte da Simone Weil
sabato 6 ottobre 2012
Dopo averlo riletto, tremo all'idea di dover dire qualcosa di un testo come La persona e il sacro di Simone Weil, ora riproposto da Adelphi a cura e con un commento di Giancarlo Gaeta. Fu scritto nel 1943, poco prima della morte dell'autrice, e può essere considerato un testamento spirituale di eccezionale altezza e intensità, da leggere insieme a La prima radice, opera molto più ampia e organica, un vero trattato.In questo come in altri casi, riassumere il pensiero di Simone Weil è quasi impossibile. I suoi scritti hanno una tale forza intellettuale, una tale nuda precisione, una così evidente ispirazione morale e spirituale, che la prima e forse unica cosa che viene in mente di fare è leggerli e rileggerli, citarli, meditarli e farli agire sulla propria mente perché sviluppino tutte le loro implicazioni. Ho letto questo saggio per la prima volta a vent'anni, l'ho riletto nel corso degli anni almeno un paio di volte, ma ora mi sembra di non averlo mai veramente capito. Perché questo? Perché le parole che vi si leggono – giustizia, sventura, verità, bellezza, compassione, contatto reale e diretto con Dio – sono più che parole, più che concetti, raramente si è all'altezza della loro comprensione e non basta una vita per afferrarle. Qui la nozione di giustizia viene contrapposta a quella di diritti da rivendicare e le basi di tutta la nostra concezione sociale e politica, elaborata nel Settecento fra illuminismo e rivoluzione, vengono sottoposte a una critica radicale. La politica non è niente o è un veleno senza una passione disinteressata per la verità. La nostra mente è prigioniera del linguaggio, deve andare oltre il linguaggio. Ma la verità ci è inaccessibile se non riusciamo a capire la sventura: e cioè che «non c'è niente in me che io non possa perdere» e che «il caso può in qualsiasi momento abolire ciò che sono». Finché ci si sente «persona» si resta asserviti ai mercanteggiamenti morali della collettività, al gusto del pubblico, al gioco dei partiti, al desiderio di affermazione. L'albero del puro bene, dice la Weil, non è naturale, è sopranaturale, «è radicato nel cielo».
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