Lo Strega? È diventato un premio alla carriera
venerdì 15 luglio 2022
Ogni anno, quando viene assegnato il premio Strega, cerimonia romana per molti imprescindibile, penso agli attuali romanzi italiani, a chi li scrive e a perché, almeno da dieci anni, non riesco a leggerne uno per più di una ventina di pagine. Anche se ho un'altissima considerazione del valore culturale e della funzione educativa del romanzo, non sono mai stato un gran lettore di narrativa. Tendo a leggere con la matita in mano aspettandomi di incontrare righe o passi memorabili da sottolineare, e questo forse non è il modo migliore per immergersi nel flusso di una narrazione. Il flusso però deve esserci perché sia possibile esserne trascinati. E c'è il flusso se ci sono due cose: il ritmo, la qualità della prosa e l'interesse della situazione e del personaggio, due cose oggi molto più rare che qualche decennio fa. Ormai ottenere il premio Strega sembra essere soprattutto una tappa obbligata per i molti, troppi narratori italiani, quasi un riconoscimento dovuto per ragioni di anzianità. Fa parte della "carriera" e dato che la critica letteraria è sempre meno ascoltata e autorevole (praticarla seriamente è considerato un difetto) il premio sembra che permetta agli autori di entrare nella storia. Ma esistono ancora una storia della letteratura e del romanzo italiano? Anche gli storiografi e i critici più accoglienti hanno cominciato a dubitarne. Chi ottiene il premio Strega entra a far parte della storia del premio Strega, non della storia della letteratura. Quest'anno, poi, mi è capitato di sfogliare per tutt'altri motivi il Meridiano Orwell e mi si è fermata l'attenzione su un suo articolo del 1936 intitolato In difesa del romanzo. «Il guaio – scriveva Orwell – è che si sta uccidendo il romanzo a forza di urla. Se chiedete a chiunque sia dotato di cervello perché non legga mai un romanzo, scoprirete che, alla fin fine, ciò è di solito dovuto alle disgustose stupidaggini che si trovano scritte negli articoletti pubblicitari (...) Vi sparano addosso romanzi al ritmo di una quindicina al giorno e ognuno di essi è trattato come un capolavoro indimenticabile». Adesso succede in Italia quello che in Inghilterra e in America succedeva un secolo fa. Non sono più i critici, è la pubblicità a decidere che è "grande" un autore di cosiddetti romanzi. Il rimedio, secondo Orwell, sarebbero dei recensori capaci di distinguere fra romanzi di serie A, B, C e che «tengano davvero all'arte del romanzo», perché sanno ancora che cos'è e che cosa è stata quest'arte.
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