giovedì 14 luglio 2005
Una delle prime persone che venne a chiedermi consigli appena ordinato sacerdote fu una vecchia signora che disse: «Ho pregato incessantemente per 14 anni e non ho mai avvertito la presenza di Dio». Allora le dissi: «Gli ha permesso di proferire anche solo una parola?». Rispose: «Ho parlato io per tutto il tempo: non è forse questa la preghiera?». A raccontare questo episodio è, in un suo libro, Anthony Bloom, un metropolita della Chiesa ortodossa russa. Egli delinea un'esperienza abbastanza frequente: il fedele si aggrappa al suo Dio, quasi strattonandolo con suppliche, invocazioni, petizioni, nella ferma convinzione di essere di fronte a un Dio muto e arcignamente rinchiuso nel perimetro protetto della sua onnipotenza. In realtà, se la preghiera è un dialogo (non per nulla comporta il "tu" rivolto a Dio), esige una risposta. E la risposta può trovare un varco solo se lasciamo uno spazio libero, aperto, disponibile, quello appunto del silenzio. Diceva uno scrittore francese: noi spesso ci lamentiamo perché Dio non risponde alle nostre domande; in realtà, siamo noi a non ascoltare le sue risposte. A quella donna il metropolita Bloom aveva suggerito: «Metti da parte quindici minuti ogni giorno, restando seduta a sferruzzare davanti al volto di Dio. Non sarai mai in grado di pregare Dio realmente se non impari a tacere e gioire a causa del miracolo della sua presenza, a stare faccia a faccia con lui anche se non lo vedi». È da questa oasi apparentemente inattiva che fiorisce l'incontro, è dalla contemplazione che nasce la visione interiore, è dal silenzio vero e attento che sboccia la voce segreta di Dio.
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