mercoledì 12 novembre 2003
Vedendo un fuscello di paglia galleggiare su una pozza di urina d'asino, la zanzara alzò la testa e disse a se stessa: «È tanto tempo che sogno l'oceano e un vascello. Eccoli!». Quella pozza le sembrava profonda e senza limiti perché il suo universo ha la dimensione dei suoi occhi: simili occhi non vedono che simili oceani. Improvvisamente il vento spostò leggermente quel fuscello. La zanzara esclamò: «Che grande comandante sono!». Ho qui riassunto una delle parabole di quel grande poeta e maestro della tradizione mistica musulmana che è Gialal ad-Din Rumi (1207-1273), il fondatore dei dervisci danzanti di Konya, nell'attuale Turchia (Il tesoro della cenere, ed. Boroli, Novara). La lezione è semplice e merita di essere declinata sempre, in tutti i contesti e per tutte le persone. Ognuno di noi ha, infatti, dentro di sé almeno una traccia della sindrome della zanzara. Siamo sempre tentati di misurare gli altri e il mondo sulla base della dimensione dei nostri occhi. Facciamo, così, crescere a dismisura una difficoltà o un successo e banalizziamo realtà complesse e ardue. È, in ultima analisi, il tarlo dell'orgoglio vanitoso che trascina con sé l'illusorietà. Victor Hugo definiva il superbo "un titano nano": è simile a quei cagnolini minuscoli da salotto che
ti oppongono una grinta feroce e un abbaiare frenetico, sollecitando solo il riso divertito dello spettatore. In questa luce diventa, allora, indispensabile il realismo che cerca di snebbiarci il cervello. O, meglio ancora, l'umiltà che - come dice la parola stessa - ci riporta all'humus, cioè alla terra, consapevoli del nostro limite e della nostra fragilità, sapendo poi, come credenti, che «Dio resiste ai superbi e dà la sua grazia agli umili» (1 Pietro 5, 5).
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