La via alla giusta autonomia impone giusto equilibrio
domenica 10 luglio 2022
L'autonomia differenziata delle Regioni è una partita che, curiosamente, si riaccende alla fine delle legislature. Quando il governo Gentiloni sottoscrisse le intese preliminari con Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, era il 28 febbraio 2018 e le Camere erano addirittura già sciolte.
Il tema riemerge ora nel dibattito politico-istituzionale, a circa otto mesi dalla conclusione dell'attuale mandato parlamentare, in seguito alla diffusione di una bozza di legge-quadro su cui il ministro competente, Mariastella Gelmini, ha risposto ad alcune interrogazioni, manifestando altresì l'auspicio di poterne portare il testo quanto prima in Consiglio dei ministri. Non è che in questi anni tutto sia rimasto fermo, ovviamente.
Le tre Regioni hanno allargato il perimetro delle loro richieste, altre Regioni si sono fatte avanti. Il tema è stato più volte inserito nei programmi dei governi e tra i "collegati" delle manovre economiche, compresa quella dello scorso autunno. Sono state predisposte diverse bozze per attuare quel terzo comma dell'art. 116 della Costituzione (nella versione del 2001) in cui viene prevista la possibilità di «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» delle Regioni a statuto ordinario. L'ultima è il frutto anche del lavoro di una commissione coordinata dal costituzionalista Beniamino Caravita, un grande specialista del settore, purtroppo venuto a mancare prematuramente.
Tra i punti nodali spiccano i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni che andrebbero garantiti (effettivamente) a tutti a prescindere dalla Regione di residenza. Ma anche il superamento del criterio della "spesa storica", che finisce per perpetuare all'infinito le disuguaglianze. Così pure sono da chiarire bene il ruolo del Parlamento in merito alle intese tra lo Stato e le Regioni e la stessa ampiezza delle materie oggetto di tali intese. Al di là delle singole, importanti questioni – che restano dirimenti per valutare la qualità dell'operazione ai fini dell'interesse generale del Paese – si ha però l'impressione di una sfasatura di fondo rispetto alle priorità della comunità nazionale. Davvero questo è il momento di puntare sulle differenze? O non è invece il tempo di valorizzare soprattutto ciò che unisce? Certo, la Repubblica «una e indivisibile» è la stessa che «riconosce e promuove le autonomie locali», come recita l'art. 5 della Costituzione.
Ma nel rapporto dialettico tra queste due dimensioni fondative è la concretezza della storia che indica dove porre l'accento. Anche sotto il profilo strettamente istituzionale, le emergenze di questi ultimi anni, a cominciare dalla pandemia, hanno richiamato l'esigenza di ripensare il regionalismo integrando, portando a compimento e forse anche correggendo in alcuni punti la riforma del 2001. Un sistema di autonomie forti esige, per esempio, l'introduzione di quel "principio di supremazia" che consente allo Stato di svolgere un fondamentale ruolo equilibratore. È un principio tipico degli Stati federali, non un'espressione di centralismo. Lo chiede ora – insieme ad altri interventi – una proposta di legge costituzionale d'iniziativa popolare presentata nelle scorse settimane al Senato. Ma esso era già stato ripetutamente evocato in piena pandemia da giuristi illustri come Cesare Mirabelli, presidente emerito della Consulta.
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