sabato 10 agosto 2019
Diceva sant'Ambrogio che «non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché quel che è dato in comune per l'uso di tutti, è ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi». Una affermazione che non ha bisogno di molte spiegazioni e che richiama senza possibilità di equivoci il principio della destinazione universale dei beni. O, per dirla con le parole usate da papa Francesco domenica scorsa, «i beni sono necessari – sono beni! –, ma sono un mezzo per vivere onestamente e nella condivisone con i più bisognosi».
E se nella storia della Chiesa questo principio s'è a tratti appannato, nel magistero moderno l'insistenza su di esso è costante. Nella Costituzione conciliare Gaudium et spes si legge che «quali che siano le forme della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli secondo circostante diverse e mutevoli circostanze, si deve sempre tener conto di questa destinazione universale dei beni. L'uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui, ma anche agli altri». Esiste dunque un limite nel diritto di proprietà, e anzi nella Populorum progressio Paolo VI precisò che «tutti gli altri diritti, di qualunque genere, ivi compresi quelli della proprietà e del libero commercio, sono subordinati» alla destinazione universale dei beni. Giovanni Paolo II è altrettanto esplicito: «La tradizione cristiana non ha mai sostenuto questo diritto [di proprietà] come un qualcosa di assoluto e intoccabile. Al contrario, essa l'ha sempre inteso nel più vasto contesto del comune diritto di tutti a usare i beni dell'intera creazione: il diritto della proprietà privata come subordinato al diritto dell'uso comune, alla destinazione universale dei beni».
Papa Ratzinger, che a questo tema ha dedicato pagine indimenticabili, nel 2012 citando il monaco santo, e vescovo, Cesario di Arles, affermò che «la ricchezza non può fare del male a un uomo buono, perché la dona con misericordia, così come non può aiutare un uomo cattivo, finché la conserva avidamente o la spreca nella dissipazione». E dunque, tornando alle parole di Francesco, Gesù «ci invita a considerare che le ricchezze possono incatenare il cuore e distoglierlo dal vero tesoro che è nei cieli». Questo non significa «estraniarsi dalla realtà, ma cercare le cose che hanno un vero valore: la giustizia, la solidarietà, l'accoglienza, la fraternità, la pace, tutte cose che costituiscono la vera dignità dell'uomo».
In altre parole «si tratta di tendere ad una vita realizzata non secondo lo stile mondano, bensì secondo lo stile evangelico: amare Dio con tutto il nostro essere, e amare il prossimo come lo ha amato Gesù, cioè nel servizio e nel dono di sé». Del resto «l'amore così inteso e vissuto è la fonte della vera felicità, mentre la ricerca smisurata dei beni materiali e delle ricchezze è spesso sorgente di inquietudine, di avversità, di prevaricazioni, di guerre. Tante guerre incominciano per la cupidigia». Perché come disse Papa Wojtyla in India nel 1986, «l'accumulo dei beni materiali non è il fine ultimo della vita. La vera liberazione dell'uomo sarà raggiunta solo, così come lo sarà l'eliminazione di tutto ciò che si oppone alla dignità umana, quando la visione spirituale dell'uomo sarà tenuta in considerazione e perseguita».
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